Nell’ottobre del 1999, ero con un amico americano, un sociologo di
Oxford. Il discorso cadde su quel documento dell’umanità che è la Dichiarazione d’Indipendenza americana. Trovavo straordinario, e lo
dissi al mio amico, che nel 1776 un gruppo di uomini illuminati da un
“entusiasmo” filosofico e civile, nel redigerlo, concepissero un diritto mai
affermato prima: il diritto alla felicità.
“L’uomo ha diritto alla felicità” è una di quelle epigrafi scritte
nei cieli, un grido di libertà destinato ad echeggiare per sempre nel concerto
universale della storia e nel cuore di ogni uomo. Manifestai apertamente la mia
ammirazione per un paese, allora nascente, che era stato capace di concepire un
fine così alto e di perenne validità, un
asintote ideale verso cui la storia avrebbe teso all’infinito, per sempre.
Raccontai come da molti anni questa affermazione solenne mi
affascinasse e la considerassi uno di quei vessilli innalzato all’unica, vera
rivoluzione, la Rivoluzione Individuale: quello sconvolgimento di idee e
convinzioni, quello shock del pensiero che può avvenire solo nell’individuo.
Rivoluzioni, guerre, rivolte, hanno lasciato tutto com’era e nei secoli dei
secoli sono tutte miseramente fallite perché esterne all’uomo.
“L’uomo ha diritto alla felicità” è il vagito di una nuova
umanità, un canto più forte di mille peana, capace di far fremere l’immensa
assemblea del genere umano e di mettere in marcia milioni di uomini verso la
conquista della propria dignità. L’uomo non è stato maledetto per sempre.
Soffrire, invecchiare, ammalarsi e morire non è una condanna ineluttabile e non
può più essere accettata come destino comune dell’uomo e sua naturale,
ineludibile condizione. L’uomo ha diritto alla felicità, ecco la visione
capace di far saltare dai cardini tutto il vecchio impianto mentale di
un’umanità sconfitta, l’idea luminosa capace di riscattarci, darci un fine.
Erano queste le parole che correvano nella casa lucchese con
l’amico americano, nell’inverno del 1999. Quella conversazione sarebbe rimasta
tale, uno scambio di idee tra amici, se in quella occasione en
passant non avessi appreso
che quella espressione che credevo coniata da quei legislatori-filosofi
capeggiati da Thomas Jefferson e da Benjamin Franklin, non era americana.
“La prima stesura del
documento, ancora in bozza, in quel punto recitava: l’uomo ha diritto alla
proprietà” - mi disse l’amico - “ma la proposta che era di John Locke non
convinse Benjamin Franklin, il padre della Rivoluzione americana, che non ne
era soddisfatto”. Lui, solo lui, conosceva l’invisibile completezza di quel
documento che, come un corpo, per vivere aveva bisogno di tutti gli organi. E
lì mancava l’organo più importante, il cuore.
Fece allora qualcosa di
straordinario. Mandò una delegazione in Italia.
Ero affascinato dagli
insperati sviluppi di quella conversazione. Stavo percorrendo a ritroso la
traccia che poteva condurre all’origine di quell’idea che avrebbe trasformato
la felicità, da concetto visionario, da chimerica aspirazione o wishful
thinking, a diritto
naturale, inalienabile e
inviolabile dell’umanità, e della ragione.
Avrei voluto saperne di più.
Stavo percorrendo il Nilo alla ricerca delle sue mitiche fonti. Ma il mio amico
non sapeva altro se non che quella delegazione aveva con sé la bozza della
dichiarazione d’indipendenza di quella nascente nazione e la missione di
incontrare chi doveva completarla. Ma chi fossero venuti ad incontrare in
Italia, chi avrebbe sostituito l’espressione di Locke con quella scheggia
luminosa di intelligenza, non era possibile sapere. Non c’era libro che lo
riportasse, né ricerca che l’avesse accertato. Quel 1999 stava chiudendosi
così, lasciando irrisolto quell’affascinante enigma che continuò ad occupare i
miei pensieri per i giorni seguenti. Di lì a poche settimane, nel dicembre del
1999, dovetti recarmi a Napoli per attività legate al nuovo ateneo della
European School of Economics. In quell’occasione visitai Palazzo Serra di
Cassano, sede dell’Istituto Filosofico, e la mostra allestita per il
bicentenario della Rivoluzione napoletana; la rivoluzione dei filosofi che
doveva condurre al martirio un’intera classe intellettuale tra le più colte ed
illuminate d’Europa. Quell’anno la testa pensante di un’intera nazione fu
tragicamente recisa e il suo cuore palpitante si fermò per secoli. Appresi che
quel palazzo era rimasto chiuso per duecento anni, dal giorno in cui il giovane
figlio, fervente seguace delle idee repubblicane, cadde martire di quella repressione.
Rivivere la fine di quel sogno di libertà, la recisione del fiore della cultura
napoletana ed europea, in quel palazzo dove avevano echeggiato gli ideali
repubblicani e le parole di quegli uomini e donne che avevano giurato di voler
vivere liberi o morire, provocò una vertigine del pensiero.
Tra le opere esposte mi impressionò uno dei quadri che
rappresentava un condannato dal volto nobile, lo sguardo sognante, e alle sue
spalle il boia. Senza il particolare del capestro tra le mani di quest’ultimo
sarebbero sembrati una coppia di giovani amanti, lascivamente vicini. Vite
intrecciate in uno stesso destino che portava l’uno ad essere vittima e l’altro
carnefice. Fu lì che trovai un libriccino di circa 70 pagine, l’ultima
pubblicazione dell’Istituto: un omaggio a Gaetano Filangieri e alla sua opera
“La scienza della legislazione”. Fu lui l’ispiratore, il legislatore-filosofo,
il padre della Rivoluzione che non vide. In quelle stanze erano risuonate le
sue idee che ora ritrovavo ancora palpitanti in quelle pagine che avevo tra le
mani. L’uomo che aveva saputo essere il Platone di Napoli, che aveva consacrato
solennemente allo Stato la sua vita, aveva firmato le “Riflessioni politiche
sull’ultima legge del Sovrano”. Apparse nel Settembre del 1774 esse rappresentarono
il vero inizio della Rivoluzione napoletana ed il suo manifesto. Quel giorno
scoprii l’informazione che mancava al mio amico Americano. Benjamin Franklin
aveva inviato il testo della Costituzione a Gaetano Filangieri usando due
intermediari di suggestivo valore simbolico:
Luigi Pio, diplomatico napoletano a Parigi, sostenitore di
Robespierre, e l’abate Leonardo Panzini che aderì alla Repubblica e ne fu
rappresentante presso il Direttorio.
Meravigliosamente, le tessere di quel mosaico stavano trovando il
loro posto. Fui percorso da un brivido di irrealtà. Allo scadere esatto di due
secoli, nel Palazzo Serra di Cassano, mi veniva rivelato il segreto prezioso. I
due frammenti di quella storia rimasti separati per centinaia di anni, come i
due pezzi di un amuleto, si riunivano proiettando una luce abbagliante. Ora
sapevo che quell’idea era nata dall’intelligenza e dalla passione civile di
Gaetano Filangieri, una delle voci più alte della coscienza europea. Benjamin
Franklin l’aveva incastonata, come un gioiello, insieme al diritto alla vita e
alla libertà, in quella Unanime Dichiarazione dei Tredici Stati Uniti d’America
che resterà monumento della speranza dell’umanità di diventare un giorno una
specie felice e immortale.
Tra “l’uomo ha diritto alla felicità”, coniato da Filangieri,
inserito nel testo dalla Dichiarazione, e “l’uomo ha diritto alla proprietà”,
proposto da Locke, passano eternità. L’ascesa che gli USA conosceranno tra le
nazioni della terra, la sua capacità di
attirare e di assimilare uomini da ogni parte del pianeta, attirati da quel
profumo intenso di libertà, the american dream, trovano origine e spiegazione
in quel granello di immortalità, in quel seme luminoso inserito nella
Dichiarazione. Da questo si sviluppa l’economia e la potenza degli Stati Uniti.
Lo slogan diventa più americano della bandiera a stelle e strisce è
l’espressione più alta dei principi e della missione di quel paese.
La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, nella sua
parte più luminosa, ha un padre napoletano. Partita dall’Italia la storia degli
Stati Uniti, con la scoperta di Colombo, ritorna all’Italia con Filangieri per
il suo atto di nascita, come in un simbolico ritorno al padre che mostra il
forte intreccio dei destini dei nostri due popoli. I segnali di decadenza
di quella società sono poi diventati tanti e si sono acutizzati. Quella
promessa al mondo, di disponibilità verso i suoi problemi, in una prospettiva
di significato universale, capace di abbracciare popoli e civiltà in una
visione ampia e dialettica, non si è compiuta. La distruzione delle World
Towers dell’11 settembre è soltanto il segno visibile di una lunga degradazione
del ‘sogno’ che si è gradualmente trasformato in cupidigia, in volontà di
potenza, e non infrequentemente in sfruttamento e sopraffazione.
La conflittualità, la criminalità, un’economia che è una macchina
di morte, con al centro l’industria bellica più grande del mondo, vanno in
direzione opposta a quei valori di dignità e di libertà indicati dal ‘sogno’.
Quando una società ha un numero di obesi che ha superato di molti
punti il 50% non ha bisogno dei talebani per conoscere il sabotaggio e il
disastro.
La strage di civili in Afghanistan ha sporcato di sangue la
Dichiarazione d’Indipendenza poche ore prima del suo anniversario. E’ un
presagio che sarà bene scongiurare più che ignorare.
Filangieri idealista e giurista, ancora crede che la felicità
possa arrivare dall’esterno. Come Rousseaux, crede che il cambiamento delle
leggi, la repubblica, la democrazia, la liberalizzazione delle istituzioni
politiche e civili, possano portare felicità ai popoli. Rousseaux nella prima
pagina del “Contrat Social” osserva che l’uomo parla sempre di libertà “ma
dovunque volgo lo sguardo lo vedo in catene”.
Ignorava che la felicità è possibile solo all’individuo. Solo chi
ha sconfitto in sé la logica conflittuale, le forze opposte che da sempre si
combattono nel cuore di ogni uomo ha diritto alla felicità. E solo un uomo
felice può cambiare l’economia e portare guarigione ai millenari problemi del
mondo.