lunedì 25 maggio 2015

"La guarigione procede dall'interno" di Stefano D'Anna

Proseguendo quel viaggio a ritroso nel passato, approdammo al periodo degli ultimi mesi di vita di Luisa. Mi rividi nell’ottusa, inconsapevole recita del marito addolorato, del capo famiglia non ancora trentenne, già curvo sotto il peso di una disgrazia troppo grande. Osservai quel piccolo uomo
autocommiserarsi, accusare, recriminare, rimpiangere. Lo vidi astioso, in preda a livori, a rancori; perso in immaginazioni malate; palpitante d’ansia, il cuore stretto tra gli artigli implacabili dei suoi sensi di colpa.
Ascoltai il suo canto di dolore, quell’incessante atto d’accusa verso il mondo e gli altri. Finché non potei reggere oltre.
«Perché tutto questo? Che cosa ci faccio qui?» urlai scompostamente al Dreamer, sentendomi schiacciare dalla vergogna di quella visione. Avrei voluto girare le spalle e fuggire, ma non potei muovere un muscolo. Con inaspettata gentilezza il Dreamer mi rinnovò lo scopo di quel viaggio: portare luce nel passato, ritornarci con una nuova comprensione.
Era un’opportunità irripetibile.
«Come in ogni vera guarigione, il processo deve avvenire dall’interno» disse distogliendomi provvidenzialmente da quello stato di vittimismo che rischiava di sopraffarmi ad ogni istante.
«È il nostro Essere che crea il mondo e non viceversa!
Come tutti gli uomini hai sempre creduto che fossero gli eventi a creare i tuoi stati, che fossero le circostanze esterne a renderti infelice, insicuro. Ora sai che questa è una descrizione capovolta della realtà.» Stavo riprendendomi. Attesi ancora qualche secondo, poi feci segno al Dreamer che ero pronto a proseguire.
La tappa successiva fu via Bolognese a Firenze, dove a quel tempo mi occupavo di formazione manageriale. In quei mesi, con i colleghi, si era stabilita una sorta di simbiosi emozionale che combinava la mia attitudine ad auto-commiserarmi con la loro solidarietà a buon mercato. Senza
esserne consapevoli, la mia ‘disgrazia’ li faceva sentire meglio. Attraverso un salutare spavento, messi di fronte alla precarietà della vita, per un po’ riuscivano ad apprezzare la loro mediocre razione di esistenza.
Mi trattavano con la gentilezza e la premura che si ostenta per un malato, per un ferito, per chi è sconfitto. ‘Vidi’ tutto l’orrore di quel baratto e provai un profondo sconforto. Da qualunque parte lo osservassi, il mio passato era intessuto di ombre. Non c’era il più piccolo brandello da salvare.
Mi aggiravo come un disperato sul luogo di un disastro, alla ricerca di qualcosa da recuperare: una persona cara, un rapporto, qualsiasi cosa che avesse utilità o valore. Inutilmente. Avevo il fiato mozzo per l’orrore. Senza la presenza del Dreamer non avrei trovato la forza di andare oltre.
«Non dare colpa agli eventi – disse, vedendomi vacillare sotto il peso di quelle emozioni – Restare vedovo a ventinove anni con due bambini non è una maledizione. Un evento non è né bello né brutto. È soltanto un’opportunità.
Se avessi avuto una disciplina avresti potuto trasformare quella circostanza in un evento luminoso, trasferirla ad un ordine superiore… non sarebbe stato necessario andare attraverso tante sventure.
Tutto quello che vedi e tocchi è l’immagine riflessa del tuo Essere, di quella incompletezza, di quel gap che ti porti dentro. Nell’esistenza non ci sono spazi vuoti. Se non li colmi intenzionalmente, imponendoti un nuovo modo di pensare, di agire, dovrà intervenire il mondo con la sua spietatezza.
Se non vedi, o non vuoi vedere, la malattia si acutizza e la commedia della tua vita si farà sempre più dolorosa. Tutto avviene per rivelarti la causa di quella tragedia, per riportarti alla fonte di tutto questo… e permetterti un giorno di trasformare la visione mortale dell’esistenza.»
Estratto da: "La Scuola degli Dei"










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