«Lavorare è il riflesso di una psicologia incompleta. Il ruolo che un uomo occupa nel mondo è il sintomo più sincero di una incompletezza, il modo più semplice per risalire alla causa di ogni suo male. Tu puoi fare solo quello che sei. Quando questo ti sarà chiaro e diventerà carne della tua carne, saprai anche come intervenire sulla causa.
Cambiare se stesso significa intervenire ogni attimo sul proprio modo di pensare e di sentire, significa portare luce nella propria vita. Più conosci te
stesso più i ruoli che occupi si sublimano. Più sei responsabile interiormente e meno dipendi. Questo permette di abbandonare la sofferenza insita in ogni ruolo e trasformare il lavoro-fatica in sogno.
Il lavoro si sublimerà, finché un giorno sparirà dalle attività umane.»
Aggiunse che per millenni lavorare è stato il riflesso di una maledizione… l’effetto di una caduta. Attraverso lo studio e l’osservazione di se stesso, un uomo accorcia le distanze tra sé ed il mondo che ha proiettato, guarendo così l’incompletezza dei propri stati d’Essere e, di conseguenza, la sua realtà.
Il Dreamer mi fece rilevare come in tutte le culture ed in tutti i tempi il lavoro sia sempre stato connotato da fatica fino a diventare sinonimo stesso di costrizione, di sforzo. Nelle varie tradizioni e lingue dei popoli le condanne bibliche al dolore − per l’uomo attraverso la fatica del lavoro, per la donna attraverso il travaglio del parto − si intrecciano e rivelano la loro comune origine. Nel conio della parola francese travail,
nel termine anglosassone labour, questa intelligenza è registrata e sigillata per sempre. Così nello spagnolo. Così negli antichi dialetti del Sud d’Italia, diretti eredi ed invisibili continuatori della grecità.
«Bisogna trasformare il lavoro in ‘sogno’!» annunciò con forza il Dreamer.
Le Sue parole risuonarono come un grido di guerra capace di infervorare gli animi e chiamare a raccolta sterminati eserciti sotto il vessillo di una stessa crociata.
«Spendi tutta la tua forza, il tempo, l’energia e tutto quello che hai, per
realizzare quello che veramente vuoi!»
Questa esortazione del Dreamer era rivolta a un’audience planetaria, a milioni di uomini che come me, avevano dimenticato il volo magico, il ‘sogno’.
«Arte del sognare significa amarsi dentro − mi disse − occorrono anni di autosservazione e di attenzione per riscoprire la volontà, per riguadagnare l’integrità perduta.»
Affermò che per i giovani è più semplice riscoprire quello che veramente vogliono. La volontà, il ‘sogno’, nei giovani non è ancora completamente sepolto.
«Una vera scuola elimina tutto ciò che ostacola il ‘sogno’. Più che imporre false, inutili nozioni, una vera scuola libera i giovani da paure, superstizioni e dal sonno ipnotico che li confina nel ghetto di un’umanità che dipende.»
Mio padre aveva a suo modo tentato di affidare la mia educazione ad una scuola dell’Essere, cercando tra gli istituti religiosi; ma i Barnabiti, già a quel tempo, intrappolati dalla descrizione del mondo, avevano smesso
di preparare uomini responsabili, un’aristocrazia decisionale. Anch’essi, avevano dimenticato.
«Chi ama quello che fa non dipende. Chi ama non ha un tempo da vendere… Solo chi non ama può essere reclutato, retribuito. Un uomo che ama è impagabile.»
«Tra le massime illusioni di chi lavora − disse − c’è quella di percepire una retribuzione. In realtà quello che viene ritenuto un compenso, stipendio o salario, è solo un modesto, parziale, risarcimento dei danni prodotti dalla condizione di dipendenza.»
Sottolineai più volte sul taccuino quella definizione che ci scagliava lontano anni luce da tutto quello che eravamo abituati a credere e a pensare; il dolore ‘buono’ di una ferita che sta guarendo accompagnò la consapevolezza della degradazione fisica e morale che uomini e donne subiscono, o meglio si infliggono,
lavorando senza creatività, senza amore, in ambienti psicologicamente inquinati.
Nel suo insieme la visione del Dreamer anticipava l’avvento di un’umanità più responsabile, più libera e felice, riscattata dalla dipendenza, dedita solo a ciò che ama. Predisse che questo si sarebbe accompagnato inevitabilmente ad una economia più evoluta, ad una progressiva, inarrestabile riduzione del lavorofatica
e ad un declino dell’educazione tradizionale.
L’economia non è fondata sul lavoro, ma sulla felicità.
La felicità è economia.
Le scuole della vecchia umanità sono fondate su una concezione opposta. Esse sono la propaggine dell’attitudine mentale di un’intera civiltà che ancora concepisce il lavoro come dolore, come condanna;
di una società che per funzionare una volta usava gli schiavi e oggi ha bisogno di educare un esercito di perdenti, uomini capaci di accettare la insopportabile dolorosità del dipendere.
«A sette anni gli spartani smettevano di dipendere, erano inseriti in una scuola del coraggio, dove si forgiavano eroi, guerrieri luminosi, invincibili; oggi alla stessa età i bambini sono inquadrati nell’esercito triste degli adulti.
È osservabile la loro trasformazione. Il gusto del gioco, la freschezza delle impressioni, l’entusiasmo, l’adattabilità, il coraggio, vengono sostituiti giorno dopo giorno con l’apprendimento di emozioni apparentemente umane: invidia, gelosia, rancore, ansietà, timore; con l’acquisizione di abitudini insane: il lamentarsi, il parlare eccessivo, il nascondersi e il mentire; con l’imitazione di quelle deformazioni del viso che sono le maschere della loro degradazione.
L’ingabbiamento della libertà del bambino, tarpargli le ali del sogno, è un’immoralità che l’umanità così com’è non riesce a vedere e che paga con i mille mali sociali di cui è afflitta e con un’economia fondata sul disastro.»
Ci fu una lunga pausa. Il gigante Huangpu era stato assorbito dalla notte e soltanto il traffico dei battelli, ancora intenso a quell’ora, le loro luci che si incrociavano, permettevano di indovinarne la presenza. In piedi, sotto un lampione sul lungofiume del Bund, completai le annotazioni di questa
indimenticabile lezione registrando le parole che la conclusero.
«Come lo sferragliare del treno, che dopo qualche tempo non avvertiamo
più, così la dolorosità del dipendere diventa per noi tutt’uno con l’esistenza,
una costante naturale e, per assurdo, una presenza rassicurante della vita.
Abbandonarla sarà, da adulto, un’impresa impossibile.»
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