domenica 26 ottobre 2014

"Sgambetto alla meccanicità" di Stefano D'anna

Più volte al giorno la voce del Muezzin invitava i fedeli alla preghiera. Come nelle antiche polis quella voce sembrava definire il perimetro di mura invisibili. Non c’erano i drappelli della polizia religiosa, come in Arabia Saudita (dove salvarsi l’anima è affare di stato) che pattugliavano
il souk, né si sentivano i colpi di manganello sulle saracinesche dei negozi per assicurarsi che ogni attività profana fosse interrotta e che tutti fossero in moschea. Ma ugualmente i cantilenanti versi del corano, diffusi dagli esili minareti, sospendevano ogni attività e invitavano perentori ad una
delle rituali genuflessioni giornaliere verso La Mecca. Tener presente la direzione della Città Sacra, per l’orientamento interiore degli islamici, aveva la stessa importanza della stella polare per
la navigazione. In ogni ufficio, camera d’albergo, luogo pubblico, c’era una freccia millimetricamente puntata verso La Mecca. In quella direzione milioni di tappeti da preghiera, cinque volte al giorno, si srotolavano insieme in tutto l’Islam per accogliere gli oranti. Allo scoccare dell’ora
fissata, ogni altra attività passava in secondo piano.

Una volta, in viaggio di ritorno dall’Europa, trovai posto all’ultimo momento su un aereo della Saudi che faceva scalo a Jeddah. Troppo tardi scoprii che si trattava di un volo haj diretto a La Mecca e che
ero l’unico ‘infedele’ a bordo. La mia posizione si fece imbarazzante quando a metà strada tutti i passeggeri si spogliarono degli abiti della partenza e si cinsero del drappo bianco dei pellegrini islamici. Poi, a dispetto degli appelli e degli sforzi inumani del personale di bordo per rimetterli a sedere, presero a pregare a turno, occupando i corridoi del Tristar e genuflettendosi verso La Mecca. Mi domandai come riuscissero a trovarne la direzione. Fantasticai di uccelli mistici, di esseri dall’istinto arcano, infallibilmente attratti verso il loro piccolo sole nero, al centro dell’Al-Ka’aba.
Più volte mi era accaduto che nel mezzo di una negoziazione o di un meeting d’affari, gli interlocutori islamici interrompessero ogni cosa per ritirarsi in preghiera. Avvertivo che quei pochi minuti di interruzione in qualche modo li rafforzava, ma non sapevo come. Tentai di indagare
la ragione più profonda di quella pratica religiosa, l’intelligenza celata dietro questo rituale, ma nessuno aveva saputo darmi una spiegazione che andasse oltre una visione bigotta, superstiziosa. Durante uno degli incontri col Dreamer colsi l’opportunità per chiederGlielo.
La spiegazione che ne ricevetti ebbe un peso speciale nella mia preparazione. L’annotai fedelmente.
« …Le tradizioni sapienziali, attraverso i millenni, hanno inventato e tramandato ogni sorta di ‘trucchi’ per contrastare la rigidità, la ripetitività verso cui inevitabilmente tendono gli uomini − mi disse − Le genuflessioni rivolte a La Mecca cinque volte al giorno, il digiuno rituale del Ramadan
nel nono mese dell’anno lunare islamico, ed i rituali presenti in tutte le tradizioni religiose, si potrebbero definire ‘sgambetti alla meccanicità’. La loro funzione è alimentare l’intelligenza ormai assopita, latente, attraverso l’interruzione di routine, spingendo gli uomini a deviare dai solchi di
inveterate abitudini.»
Il Dreamer continuò spiegandomi che esse sono norme di igiene fisica, mentale e spirituale di cui si è perduta l’originaria intelligenza e che ormai sopravvivono larvatamente sotto forma di credenze religiose, di rituali ormai vuoti, o come pratiche superstiziose. Sarebbe stato sufficiente prestare un po’ di attenzione ai nostri movimenti per scoprire quanto sia meccanica e ripetitiva la nostra vita. Fin dal mattino, avviamo con scrupoloso rigore una serie di azioni, sempre uguali: scendiamo dal letto
poggiando lo stesso piede, cominciamo a raderci sempre dallo stesso lato, laviamo i denti ripetendo lo stesso numero di movimenti, nelle stesse direzioni con le stesse smorfie. Abbiamo abitudini scontate, esprimiamo le solite idee usando gesti, linguaggi e inflessioni di sempre. Perfino le nostre emozioni sono prevedibili, come riflessi condizionati dell’anima.
Nell’uomo ordinario la volontà è sepolta. Il suo comportamento è il riflesso di una intelligenza artificiale e potrebbe più proficuamente essere studiato da scienze come l’etologia o la robotica che non dalla psicologia.
«Anche quando è convinto di prendere una decisione, di fare una scelta, di esprimere liberamente la sua volontà − continuò il Dreamer − con un minimo di autosservazione, ogni uomo potrebbe accorgersi di essere in realtà guidato da processi meccanici, di percorrere vecchi solchi mentali
scavati da pregiudizi e luoghi comuni, o dall’abitudine, emulando gli altri.»
Ero sbalordito e allo stesso tempo affascinato dalle idee del Dreamer, dal Suo stile che rivelava le verità più crude sulla condizione umana senza lasciare ferite, e mi chiedevo da dove originassero la Sua autorità e la Sua saggezza. Dietro la severità del viso e delle parole, c’era un sorriso invisibile e costante, un senso di infinita compassione che mitigava la sua sistematica, spietata demolizione di idee, credenze ed illusioni radicate nell’Essere.
Avrei voluto sapere di più sugli ‘sgambetti alla meccanicità’ ma il Dreamer sembrava aver chiuso l’argomento. Insistendo, riuscii soltanto a ricavarne poche altre parole che riportai fedelmente sui miei appunti e che in qualche modo mi permisero di inquadrarli nel più vasto sistema filosofico del Dreamer.
«Ogni sforzo intenzionale, anche il più piccolo, teso a modificare un’azione ripetitiva, una reazione meccanica o a contrastare un’abitudine, è uno ‘sgambetto alla meccanicità’.»
Il Dreamer aggiunse che questo ‘lavoro’ permette ad un uomo di sfuggire alle leggi dell’accidentalità, di scongiurare il verificarsi di incidenti e perfino di trovarsi coinvolto in disastri e calamità naturali.
Da quel giorno provai a ricordarmene il più spesso possibile e cominciai ad osservare, ed a contrastare in me, automatismi incalliti, reazioni meccaniche rugginose e cigolanti, fissità, abitudini e routine di ogni tipo. Solo chi ha provato a farlo può capirne la difficoltà e realizzare quanto poco della nostra vita rimane fuori dalla tirannia degli automatismi e della ripetizione inconsapevole. Ma ne vale la pena. Lo sviluppo dell’attenzione, di uno spirito vigile, estende la sua validità ben oltre la modifica intenzionale di una nostra routine, di una consuetudine o di un comportamento. In questo gioco interno di guardie e ladri, la capacità di tendere agguati alle nostre abitudini, di diventare il cacciatore implacabile di ogni vecchiume in noi, l’attenzione ai nostri movimenti, la consapevolezza delle nostre reazioni, è un lavoro sull’Essere che ha un riflesso ineguagliabile sulla qualità del pensare e del sentire, e quindi sulla nostra vita.


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