IL TERMINE MERITOCRAZIA È RELATIVAMENTE nuovo, ha da poco compiuto il suo cinquantesimo compleanno, eppure l’avversione al senso e allo spirito di quanto esprime è antico. Nell’isola di Efeso, quasi 3mila anni fa, si fece un esperimento sociale e uno dei primi tentativi di eliminare la meritocrazia, una volta e per tutte. Secondo Eraclito «gli abitanti di Efeso hanno scacciato Ermodoro, il migliore di loro, dicendo: non vogliamo avere nessuno che sia migliore tra noi; se c’è qualcuno che lo è, se ne vada altrove, tra gli altri». Potremmo avanzare il principio che più un concetto religioso, politico o filosofico è avversato, più un’idea è associata a malignità e perfidia, permeata di un intenso odore di zolfo, più possiamo confidare che sia possente e foriera di profondi cambiamenti dello status quo, quando non di sconvolgimenti. A iniziare dal Cristianesimo, perseguitato per un secolo dalla sua nascita per poi a sua volta volgersi in feroce ostilità contro i pagani, fino alle guerre e alle infinite forme che il fondamentalismo ha assunto per tentare di sopprimere quello che è nuovo, che non si comprende.
La potenza dell’idea meritocratica si può misurare sulla base dell’avversione e spesso dell’ostilità e dell’odio viscerale che essa ha suscitato e suscita. Seguendo questo principio, dobbiamo mettere la meritocrazia tra le ideologie dalla carica rivoluzionaria più debellante, essendo essa in cima alla lista delle idee più avversate della storia. Basta pensare che negli ultimi due secoli è stato più semplice per le società umane muovere verso un comune modello evolutivo di governo e trasformarsi in democrazie liberali (superando millenni di tirannidi, regimi monarchici degenerati e totalitarismi) che adottare i principi di meritocrazia. E se nel 1776 c’era un solo Paese che poteva definirsi democrazia (i neonati Stati Uniti d’America) nel ’900 i regimi che avevano adottato un sistema rappresentativo di tipo democratico erano saliti a 13, a 36 nel 1960, a 61 nel 1990 (anno delle prime elezioni libere nella Germania Est) e così via in un’ininterrotta ascesa della storia universale e della coscienza dell’uomo verso quell’asintoto di razionalità e libertà che è l’ideale democratico e il liberalismo economico. Per contro, se si escludono precedenti storici come la Repubblica veneziana, la Finlandia del XIX secolo e la Francia napoleonica (quando il criterio ispiratore della politica fu «La carrière ouverte aux talents», e per la prima volta ogni soldato aveva idealmente nello zaino il bastone di maresciallo dipendendo solo dal suo valore e non da istruzione, origine familiare o censo) troviamo solo Singapore, l’isola città-Stato che negli ultimi 40 anni è passata dalla condizione di Paese del
terzo mondo a quella di una delle maggiori economie planetarie con un porto che è diventato il quinto più importante del mondo.
Sulla carta il sistema fondato sulla meritocrazia sembrerebbe avere tutto per funzionare. E la concezione di una società basata sull’idea che le responsabilità direttive (specialmente le cariche pubbliche) dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, trova in ciascuno di noi un naturale consenso a livello intellettuale, socio-politico e del buon senso. A chi altri dovrebbero essere affidate se non a chi ha mostrato di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, a chi più si è impegnato nello studio e nel lavoro? Agli inetti, agli accidiosi, agli incapaci?
Eppure essa ha nemici irriducibili. È talmente logico che il governo, la responsabilità di gestire le nostre risorse vadano affidati ai migliori, che lascia sorpresi come la meritocrazia sia così avversata, quando invece dovrebbe permeare l’aria stessa che respiriamo, essere l’ossigeno delle nostre società. Se così non è, deve esserci una ragione. Deve esserci una ragione se i padri fondatori della nostra Repubblica, nella carta costituzionale, non hanno saputo affermare all’articolo 1: «l’Italia è
una Repubblica fondata sul merito». Affermazione di un principio di una tale potenza che da solo avrebbe potuto cambiare il corso del suo destino. Ho cercato di riflettere su qual è l’elemento debole dell’intera concezione, l’ostacolo principale alla sua diffusione. Scoprirlo potrebbe significare permettere di superarlo e alla meritocrazia di guadagnare spazio nei sistemi politici esistenti con effetti di portata inimmaginabile, sull’economia e sulla vita morale delle società del futuro. Curiosamente la meritocrazia non ha un padre ma un patrigno.
Lo scrittore che ha coniato il termine meritocrazia (dalla fusione di «meritum», merito, e «crazia», potere), l’americano Michael Dunlop Young, infatti ne è stato anche da subito il detrattore. Nel suo
libro The Rise of Meritocracy del 1958, M.D.Young prefigura situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi di una società del futuro fondata sulla meritocrazia. La meritocrazia trova curiosamente il suo ufficiale atto di nascita in una distopia: un’utopia al rovescio. La meritocrazia, nella definizione più semplice, è un sistema fondato sul merito. Mi è sembrato
che il suo punto debole sia proprio la definizione del concetto che è al centro di questa ideologia: il merito. E la formula I + S = M (Intelligenza + Sforzo = Merito) inventata sempre da Young non aggiunge chiarezza e tantomeno penetra l’essenza di questa nozione. Per cominciare, non c’è vocabolario, enciclopedia o ricercatore che sappia cos’è l’intelligenza umana, tantomeno sappia come misurarla. Lo stesso IQ si è dimostrato il modo più stupido di misurare l’intelligenza. Sotto queste
condizioni, si può concordare con chi ritiene che una graduatoria fatta sulla base di un’intelligenza non ben definita sia fallace e addirittura lesiva della dignità umana. Cosa dire dei corporate criminals, malfattori educati nelle migliori università che hanno incassato lauti bonus e fatto fallire la loro azienda, e banchieri gangster che hanno fatto quotare società inaffidabili? Non sono uomini intelligenti? Per quanto riguarda lo sforzo, anche questo non è misurabile né può essere di per sé rilevante. Si possono fare grandi sforzi ma improduttivi, quando non dannosi. Da qui un’opposizione apparentemente irriducibile a dare riconoscimenti sulla base di intelligenza e sforzi compiuti. È un passo, ma non esaustivo. Un ulteriore ostacolo all’affermarsi dell’idea meritocratica è il pregiudizio
diffuso che avere più responsabilità coincida con vantaggi personali, arricchimento e potere sugli altri. È questo che rende inaccettabile, perfino immorale il fatto che proprio a chi è stato più fortunato per condizioni di salute e dotazione genetica, per origine familiare, possibilità di studio e per innumerevoli altri versi, siano date anche più opportunità di carriera e di ottenere posizioni ai vertici
di politica ed economia. Di qui la convinzione generale che la ricerca di posizioni di responsabilità coincida con il desiderio intenso di ricchezza, fama e potere, quando non con un’avidità senza freni.
Il discorso di Gordon Gekko-Michael Douglas, in Wall Street, la sua apologia dell’avidità esaltata come il motore stesso dell’individuo e l’essenza dello spirito evolutivo della società, potrebbe essere il manifesto di questa visione e al tempo stesso la diagnosi della malattia mortale della meritocrazia. L’avidità è giusta. L’avidità funziona. L’avidità cattura l’essenza stessa del nostro spirito evolutivo... Riflettendoci, la necessità stessa di dover parlare di meritocrazia, di doverne difendere le ragioni e i vantaggi, è il segnale più evidente dell’incapacità di realizzarla. Dove funziona non ha neppure un nome. In Giappone essere devoti ai propri doveri e avanzare socialmente secondo il merito è parte integrante dell’universo di valori confuciano. Nel definire il merito è finora sfuggita la considerazione della qualità cui si assommano i principi universali del comportamento morale: l'integrità. A un uomo senza integrità seppure intelligente e operoso non si può affidare nulla. A meno che non si voglia riconoscere nella integrità, compattezza interiore, unità dell'essere, l'espressione più alta, l'apice dell'intelligenza a cui un uomo può aspirare.
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