Tremila anni
fa, la Grecia partorì uno dei miti più emblematici e angosciosi della nostra
civiltà: il mito di Crono, divoratore dei propri figli. Oggi, con
l’accelerazione progressiva dei ritmi della nostra vita, il mito di Crono è più
attuale che mai. Siamo figli del tempo, vittime sacrificali votate a una
divinità che idolatriamo e che spietatamente ci divora. Per vincere abbiamo un
solo alleato…
Il viaggio di Pio VII da Roma a
Parigi, su “invito” di Napoleone, per incoronarlo imperatore a Notre Dame, durò
un mese. La notizia della rivoluzione francese fu data ai parmigiani dalla
Gazzetta tre anni dopo la decapitazione di Luigi XVI. La posta sulla via dei
pony express per la California impiegava settimane per essere recapitata.
La
post-modernità ci ha resi orgogliosi delle nostre conquiste. A Parigi, o in
capo al mondo, arriviamo volando, le notizie le riceviamo dalla poltrona di
casa in tempo reale, la nostra posta viaggia a velocità elettronica. Ma
questo non ci ha permesso di vincere il tempo. Siamo anzi più frustrati che
mai; uomini e donne ansiosi, insicuri, vittime sacrificali votate a Crono dalla
nascita. Abbiamo ingaggiato col tempo una gara esterna, pensando di poterlo
vincere “fuori” di noi. Abbiamo identificato il progresso con la velocità e con
una capacità sempre più grande di produrre, consumare, correre e anche
distruggere. Nessuno ci ha insegnato a vincere il tempo dentro, a comprimerlo
nel nostro essere, a sfuggirgli conquistando noi stessi.
Il risultato è che dopo millenni,
siamo ancora una specie agli albori della coscienza, senza amore, divorata dal
tempo. La vera velocità di un uomo è nell’assenza di tempo.
C’è una sola esperienza, una sola
attività possibile cui l’uomo può accedere in assenza di tempo. E’ il sogno.
Una civiltà senza orologi
Il mito di Crono, divoratore dei
propri figli, nacque sulle coste dell’Attica, tremila anni fa, ed è uno dei
miti più angosciosi del nostro immaginario. Roma, molto più tardi ne fuse il culto
con quello di Saturno e lo mitigò. Ma il senso di quel monito, quel grido di
allarme, è arrivato intatto fino a noi, come un messaggio in bottiglia che un
naufrago ha affidato all’oceano del tempo.
E’ emblematico
che quella civiltà che aveva concepito il tempo come una terribile divinità
antropofaga, non avesse orologi, clessidre o meridiane. Gli antichi greci non
misuravano il tempo. E non a caso, le colonie della Magna Grecia, come
Neapolis, e la più antica Cuma, sua fondatrice, conservano nel loro linguaggio
il segreto di quella civiltà senza tempo. Nascosti tra le pieghe della sintassi
partenopea ancora pulsano atomi di eternità. Di fatto, in questa lingua nessun
verbo può essere declinato al futuro. Ancora oggi i napoletani non dicono
domani andrò ma domani vado.
Vincere il tempo
L’antica Grecia
tentò un’impresa titanica, mai più eguagliata; concepì il sogno più ardito e
apparentemente impossibile: sognò di sconfiggere il tempo. Pur circondata da
popoli di orologiai, a contatto con civiltà tra le più raffinate misuratrici
del tempo, bandì gli orologi e ignorò ogni tecnica o meccanismo di misurazione
del tempo. La sua arma fu il “sogno” .
Quel sogno di bellezza e di immortalità
sognato sulle coste dell’Attica tremila anni fa e nel cui liquido amniotico
ancora nuotiamo, feto di quell’età di giganti che finì con Socrate e con
l’invenzione consolatoria della filosofia. Ancora possiamo ascoltarne la voce.
L’eco di quella saggezza ancora supera un abisso di millenni per raggiungerci,
ma noi continuiamo a fraintendere le sue favole eterne, come la storia di
Narciso, la nascita di Atena, il mito di Crono, parabole rivelatrici della vera
condizione dell’uomo.
L’eternità spezzettata
L’umanità è
intrappolata nel tempo. Apparentemente, non c’è esperienza, azione, pensiero
che possa eludere questa condizione che è l’effetto ineluttabile di una legge
naturale. Come la forza di gravità e la pressione dell’atmosfera ci tengono
incollati al suolo, così noi agiamo, ricordiamo, pensiamo nel tempo. Nato
immortale, a un certo punto della sua storia l’uomo ha abdicato il suo diritto
di nascita.
Il racconto
della nostra caduta nelle prigioni del tempo è riportato dalla Genesi. Con il
morso alla mela, Adamo baratta la vita con la morte, l’indipendenza con la
dipendenza, l’integrità con la divisione. L’immortalità che era diritto di
nascita dell’individuo, viene sostituita da un’eternità spezzettata,
inconsapevole, mortale. La vita dell’uomo si riduce ad una perpetuazione
zoologica fondata sull’accoppiamento sessuale e sulla riproduzione vivipara,
come quella di un qualunque mammifero.
Nascosti da una foglia di fico
Con la foglia
di fico, Adamo ed Eva nascondono gli organi sessuali. Perché? Cerchiamo di
metterci per un momento nei panni di chi ha perduto l’immortalità fisica. La
prima cosa che deve fare quest’essere così sventurato è pensare a come
riprodursi. La sua prima necessità è sostituire l’immortalità individuale di
cui godeva, con una immortalità collettiva, inconscia. Ecco perché Adamo ed Eva
si coprono il sesso con una foglia di fico. Gli organi sessuali, fin lì non
necessari, ora divenuti indispensabili alla riproduzione, sono le stimmate più
terribili e più evidenti della loro nuova condizione di esseri mortali. Quali
segni di una degradazione così grave, é comprensibile che tentassero di
nasconderli.
Breve storia dell’immortalità perduta
Dal fatidico
giorno in cui fu scacciato dal Paradiso Adamo visse novecentotrenta anni.
Sempre secondo il racconto biblico, il
suo primo figlio, Set, visse novecentododici anni. Noè aveva cinquecento anni
quando generò Sem, Cam e Iafet. Ad eccezione di Enoch, che morì
“prematuramente” a soli trecentosessantacinque anni, per tutta l’età dei
Patriarchi gli uomini anteriori al Diluvio vissero lunghissime vite. Ma una
volta caduti nel tempo la durata della vita andò sempre più accorciandosi, man
mano che ci si allontanava dall’originaria condizione di esseri immortali che
fu di Adamo. E continuò a ridursi, fino a raggiungere la media di 35 anni nel
1775. La specie umana ha rischiato di avere una vita effimera, di nascere
riprodursi e morire senza scopo, come insetti.
Il tempo è paura e la paura è tempo
Nelle
pieghe più profonde del racconto biblico è nascosto il segreto della identità
tra tempo e paura. Il tempo è paura e la paura è tempo. Il peccato di Adamo è
mortale perché è una ‘caduta nel tempo, la caduta in uno stato ipnotico: nella
‘convinzione’ di poter morire… Le sue prime parole: “Mi sono nascosto... ho avuto paura...” segnano l’inizio della
nostra tragica storia e risuoneranno per sempre come l’autodenuncia di un
essere caduto in disgrazia. Da allora, mentire, nascondersi, accusare,
giustificarsi, autocommiserarsi, sono e sempre saranno, le stigmate verbali, e
prima ancora psicologiche, di un uomo scacciato dal paradiso; di un essere che
ha tradito se stesso, che ha perduto la propria integrità.
La
Grecia antica, nell’immaginare una civiltà immortale, a una vittoria sul tempo
stava pensando a una vittoria sulla paura, a una società libera da ogni
angoscia. Trasferito nel linguaggio di Roma, sua conquistatrice e
continuatrice, l’opposto della paura (ti-mor) non è il coraggio ma l’amore
(a-mor), cioè l’assenza di morte. La lotta dell’uomo contro la paura è tutt’uno
con la lotta contro il tempo.
Smettere
di avere avere paura e smettere di morire sono una e la stessa cosa.
La via dell’eroe, dalla Grecia
all’India
Gli antichi Greci erano maestri di una scienza alla
quale i moderni cercheranno di avvicinarsi e che chiameranno psicologia. Essi
riconoscevano l’importanza di viaggiare nell’anima.
La loro mitologia ci ha tramandato il racconto di viaggi ed avventure contro
mostri e giganti che soltanto un guerriero psicologico, l’uomo che ama, l’eroe (da eros/amore/a-mors/ assenza di paura/assenza di morte) può
affrontare. I viaggi mitologici sono quindi viaggi nell’essere. Il sacrificio
di Ifigenia, il viaggio di Ulisse, il mito di Teseo, sono vittorie creative sui
nostri limiti, le nostre paure, i sensi di colpa.
La paura e il tempo per i Greci tracciavano uno
spartiacque mentale tra due specie umane, tra due visioni del mondo. Da una
parte ci sono gli eroi e i semidei, uomini in cammino verso l’immortalità,
dall’altra c’è una massa umana indistinta che vive la vita come la
materializzazione di un incubo, continuamente in attesa di difficoltà e
problemi, che percepisce il mondo come un universo ostile, ciecamente,
inspiegabilmente avverso.
Per vie diverse, la cività greca, quella giudaica e
quella romana, erano arrivate alla stessa straordinaria scoperta. Per un uomo
che ha eliminato la paura dalla sua vita, per l’eroe nulla è impossibile. Ma
solo pochi tra i pochi, attraverso la volontà e la propria impeccabilità
possono sognare un vita senza limite e dare concretezza al loro sogno di
immortalità. E’ la condizione del guerriero, dell’eroe, dell’uomo che ama.
L’induismo nella sua millenaria saggezza giunge allo stesso punto. La Baghavadgita, il capolavoro spirituale,
filosofico ed etico dei Veda, che dall’India estese la sua influenza al
pensiero buddista della Cina e poi al Giappone, indica la “fearlessness”,
l’assenza di paura, come la prima qualità dell’eroe, di chi ha natura divina.
Un film interessante: Fearless
Il
film Fearless di Peter Weir del 1993 racconta la storia di un uomo, Max Klein,
interpretato da Jeff Bridges, che esce miracolosamente vivo da un disastro
aereo. Nei pochi secondi che precedono il crash Max passa dal panico a una
condizione di totale assenza di paura che prende il posto delle sue fobie e
della sua vigliaccheria. Del film, nella lettura di un comune spettatore, passa
inosservata la scoperta più interessante: l’indissolubile rapporto che si viene
a dimostrare tra invulnerabilità, immortalità, e assenza di paura. Come gli
antichi eroi, come Alessandro il Grande che attraversava immune nugoli di
frecce, Max non muore perché ha gettato via fino all’ultimo atomo di paura.
Morte psicologica e morte fisica sono una sola cosa. Chi ha eliminato le morti
interne non può morire. Ma questo sembra
sfuggire anche allo stesso Weir e il suo racconto perde l’opportunità di farci attraversare
quello spartiacque psicologico che ha da sempre diviso gli eroi e i semidei dal
mare buio della massa umana. Al film resta il compito, svolto in modo
grossolano, di farci immaginare che cosa accadrebbe nell’esistenza di un uomo
che diventa fearless. Tutta la vita di
Max, che era costruita intorno alla sua debolezza e aveva come architrave la
paura, viene stravolta. Quell’uomo, come il personaggio pirandelliano di “uno, nessuno e centomila”, non può più
tornare alla sua professione, né vivere nel tradimento, nel compromesso, di cui
è fatto il suo rapporto con la moglie, con il figlio, con gli altri.
Egli
diventa un enigma, un alieno dal comportamento incomprensibile, il
rappresentante di un’altra specie. Solo quando ritorneranno le sue paure e la
sua pusillanimità, simboleggiate dal ristabilirsi della sua mortale allergia
alle fragole, potrà riprendere la sua vita di sempre con soddisfazione finale
degli spettatori che non vedono quanto infelice sia questo “happy end” e escono
dalla sala rinfrancati dal ritorno del protagonista alla “normalità”, alla sua
vita fatta di compromessi, di limiti e paure. Lasciata trapelare per un attimo,
Weir si affretta a esorcizzare la terribile eventualità che un uomo possa
diventare integro, un essere senza paura. Un individuo,
L’Arte del sognare
C’è
per l’uomo una sola possibilità di sperimentare l’assenza di tempo: vivere
nell’attimo. E’ l’arte del sognare, the art of self-discovery. Entrare in se
stessi, osservarsi, conoscersi è la cosa più preziosa nella vita di un uomo.
Potenziare la capacità di vivere ‘qui ed ora’ è la disciplina di un’umanità che
aspira a una vita senza limiti. Essere presenti a se stessi, mantenere costante
l’attenzione senza mai differire dall’attimo. Ecco il segreto dell’assenza di tempo.
Diventare abitanti di “Never Never Land”, dell’”Isola che non c’è” e che pure
esiste là dove il tempo è bandito, nell’eternità del qui ed ora. Dobbiamo
allenarci a uscire dal tempo quanto più spesso è possibile mentre
apparentemente conduciamo la vita di ogni giorno, sfuggire a Crono, smettere di
essere figli dell’ansia, della fretta, della paura. Occorre essere presenti. E
quando ci accorgiamo di esserci perduti, di non essere presenti, siamo
presenti.
Con
il venir meno della vigilanza, immersi nella routine del lavoro, presi nel tran-tran della nostra vita
ordinaria, dimentichiamo. Come al cedere di un argine, preoccupazioni, ansietà,
immaginazioni negative ci attaccavano riducendoci alle proporzioni di un nano
psicologico mostruosamente piccolo e tremante. Solo ogni tanto, come
‘risvegliandoci’ da un incubo, ci accorgiamo di essere ridotti a un colabrodo.
Da mille ferite nell’essere disperdiamo la vita.
Attraverso
l’autosservazione un uomo entra nei meandri più oscuri del suo essere, come
Teseo, per eliminare il mostro da cui origina ogni altra sciagura della nostra
vita: la paura. La paura è tempo e il tempo è paura. La paura è assenza di
amore. Se cè amore non può esserci paura, e viceversa. Solo allora ci sarà una
vera trasformazione, e l’uomo troverà un vero significato al suo esistere.
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