giovedì 12 marzo 2015

"SENZA AMORE, DIVORATI DAL TEMPO" di Stefano D’Anna

Tremila anni fa, la Grecia partorì uno dei miti più emblematici e angosciosi della nostra civiltà: il mito di Crono, divoratore dei propri figli. Oggi, con l’accelerazione progressiva dei ritmi della nostra vita, il mito di Crono è più attuale che mai. Siamo figli del tempo, vittime sacrificali votate a una divinità che idolatriamo e che spietatamente ci divora. Per vincere abbiamo un solo alleato…



Il viaggio di Pio VII da Roma a Parigi, su “invito” di Napoleone, per incoronarlo imperatore a Notre Dame, durò un mese. La notizia della rivoluzione francese fu data ai parmigiani dalla Gazzetta tre anni dopo la decapitazione di Luigi XVI. La posta sulla via dei pony express per la California impiegava settimane per essere recapitata.
La post-modernità ci ha resi orgogliosi delle nostre conquiste. A Parigi, o in capo al mondo, arriviamo volando, le notizie le riceviamo dalla poltrona di casa in tempo reale, la nostra posta viaggia a velocità elettronica. Ma questo non ci ha permesso di vincere il tempo. Siamo anzi più frustrati che mai; uomini e donne ansiosi, insicuri, vittime sacrificali votate a Crono dalla nascita. Abbiamo ingaggiato col tempo una gara esterna, pensando di poterlo vincere “fuori” di noi. Abbiamo identificato il progresso con la velocità e con una capacità sempre più grande di produrre, consumare, correre e anche distruggere. Nessuno ci ha insegnato a vincere il tempo dentro, a comprimerlo nel nostro essere, a sfuggirgli conquistando noi stessi.
Il risultato è che dopo millenni, siamo ancora una specie agli albori della coscienza, senza amore, divorata dal tempo. La vera velocità di un uomo è nell’assenza di tempo.
C’è una sola esperienza, una sola attività possibile cui l’uomo può accedere in assenza di tempo. E’ il sogno.

Una civiltà senza orologi
Il mito di Crono, divoratore dei propri figli, nacque sulle coste dell’Attica, tremila anni fa, ed è uno dei miti più angosciosi del nostro immaginario. Roma, molto più tardi ne fuse il culto con quello di Saturno e lo mitigò. Ma il senso di quel monito, quel grido di allarme, è arrivato intatto fino a noi, come un messaggio in bottiglia che un naufrago ha affidato all’oceano del tempo.
E’ emblematico che quella civiltà che aveva concepito il tempo come una terribile divinità antropofaga, non avesse orologi, clessidre o meridiane. Gli antichi greci non misuravano il tempo. E non a caso, le colonie della Magna Grecia, come Neapolis, e la più antica Cuma, sua fondatrice, conservano nel loro linguaggio il segreto di quella civiltà senza tempo. Nascosti tra le pieghe della sintassi partenopea ancora pulsano atomi di eternità. Di fatto, in questa lingua nessun verbo può essere declinato al futuro. Ancora oggi i napoletani non dicono domani andrò ma domani vado.

Vincere il tempo

L’antica Grecia tentò un’impresa titanica, mai più eguagliata; concepì il sogno più ardito e apparentemente impossibile: sognò di sconfiggere il tempo. Pur circondata da popoli di orologiai, a contatto con civiltà tra le più raffinate misuratrici del tempo, bandì gli orologi e ignorò ogni tecnica o meccanismo di misurazione del tempo. La sua arma fu il “sogno” .
Quel sogno di bellezza e di immortalità sognato sulle coste dell’Attica tremila anni fa e nel cui liquido amniotico ancora nuotiamo, feto di quell’età di giganti che finì con Socrate e con l’invenzione consolatoria della filosofia. Ancora possiamo ascoltarne la voce. L’eco di quella saggezza ancora supera un abisso di millenni per raggiungerci, ma noi continuiamo a fraintendere le sue favole eterne, come la storia di Narciso, la nascita di Atena, il mito di Crono, parabole rivelatrici della vera condizione dell’uomo.

L’eternità spezzettata

L’umanità è intrappolata nel tempo. Apparentemente, non c’è esperienza, azione, pensiero che possa eludere questa condizione che è l’effetto ineluttabile di una legge naturale. Come la forza di gravità e la pressione dell’atmosfera ci tengono incollati al suolo, così noi agiamo, ricordiamo, pensiamo nel tempo. Nato immortale, a un certo punto della sua storia l’uomo ha abdicato il suo diritto di nascita.
Il racconto della nostra caduta nelle prigioni del tempo è riportato dalla Genesi. Con il morso alla mela, Adamo baratta la vita con la morte, l’indipendenza con la dipendenza, l’integrità con la divisione. L’immortalità che era diritto di nascita dell’individuo, viene sostituita da un’eternità spezzettata, inconsapevole, mortale. La vita dell’uomo si riduce ad una perpetuazione zoologica fondata sull’accoppiamento sessuale e sulla riproduzione vivipara, come quella di un qualunque mammifero.

Nascosti da una foglia di fico

Con la foglia di fico, Adamo ed Eva nascondono gli organi sessuali. Perché? Cerchiamo di metterci per un momento nei panni di chi ha perduto l’immortalità fisica. La prima cosa che deve fare quest’essere così sventurato è pensare a come riprodursi. La sua prima necessità è sostituire l’immortalità individuale di cui godeva, con una immortalità collettiva, inconscia. Ecco perché Adamo ed Eva si coprono il sesso con una foglia di fico. Gli organi sessuali, fin lì non necessari, ora divenuti indispensabili alla riproduzione, sono le stimmate più terribili e più evidenti della loro nuova condizione di esseri mortali. Quali segni di una degradazione così grave, é comprensibile che tentassero di nasconderli.

Breve storia dell’immortalità perduta

Dal fatidico giorno in cui fu scacciato dal Paradiso Adamo visse novecentotrenta anni. Sempre secondo il racconto biblico,  il suo primo figlio, Set, visse novecentododici anni. Noè aveva cinquecento anni quando generò Sem, Cam e Iafet. Ad eccezione di Enoch, che morì “prematuramente” a soli trecentosessantacinque anni, per tutta l’età dei Patriarchi gli uomini anteriori al Diluvio vissero lunghissime vite. Ma una volta caduti nel tempo la durata della vita andò sempre più accorciandosi, man mano che ci si allontanava dall’originaria condizione di esseri immortali che fu di Adamo. E continuò a ridursi, fino a raggiungere la media di 35 anni nel 1775. La specie umana ha rischiato di avere una vita effimera, di nascere riprodursi e morire senza scopo, come insetti.


Il tempo è paura e la paura è tempo

Nelle pieghe più profonde del racconto biblico è nascosto il segreto della identità tra tempo e paura. Il tempo è paura e la paura è tempo. Il peccato di Adamo è mortale perché è una ‘caduta nel tempo, la caduta in uno stato ipnotico: nella ‘convinzione’ di poter morire… Le sue prime parole: “Mi sono nascosto... ho avuto paura...” segnano l’inizio della nostra tragica storia e risuoneranno per sempre come l’autodenuncia di un essere caduto in disgrazia. Da allora, mentire, nascondersi, accusare, giustificarsi, autocommiserarsi, sono e sempre saranno, le stigmate verbali, e prima ancora psicologiche, di un uomo scacciato dal paradiso; di un essere che ha tradito se stesso, che ha perduto la propria integrità.
La Grecia antica, nell’immaginare una civiltà immortale, a una vittoria sul tempo stava pensando a una vittoria sulla paura, a una società libera da ogni angoscia. Trasferito nel linguaggio di Roma, sua conquistatrice e continuatrice, l’opposto della paura (ti-mor) non è il coraggio ma l’amore (a-mor), cioè l’assenza di morte. La lotta dell’uomo contro la paura è tutt’uno con la lotta contro il tempo.
Smettere di avere avere paura e smettere di morire sono una e la stessa cosa.

La via dell’eroe, dalla Grecia all’India
Gli antichi Greci erano maestri di una scienza alla quale i moderni cercheranno di avvicinarsi e che chiameranno psicologia. Essi riconoscevano l’importanza di viaggiare nell’anima. La loro mitologia ci ha tramandato il racconto di viaggi ed avventure contro mostri e giganti che soltanto un guerriero psicologico, l’uomo che ama, l’eroe (da eros/amore/a-mors/ assenza di paura/assenza di morte) può affrontare. I viaggi mitologici sono quindi viaggi nell’essere. Il sacrificio di Ifigenia, il viaggio di Ulisse, il mito di Teseo, sono vittorie creative sui nostri limiti, le nostre paure, i sensi di colpa.
La paura e il tempo per i Greci tracciavano uno spartiacque mentale tra due specie umane, tra due visioni del mondo. Da una parte ci sono gli eroi e i semidei, uomini in cammino verso l’immortalità, dall’altra c’è una massa umana indistinta che vive la vita come la materializzazione di un incubo, continuamente in attesa di difficoltà e problemi, che percepisce il mondo come un universo ostile, ciecamente, inspiegabilmente avverso.
Per vie diverse, la cività greca, quella giudaica e quella romana, erano arrivate alla stessa straordinaria scoperta. Per un uomo che ha eliminato la paura dalla sua vita, per l’eroe nulla è impossibile. Ma solo pochi tra i pochi, attraverso la volontà e la propria impeccabilità possono sognare un vita senza limite e dare concretezza al loro sogno di immortalità. E’ la condizione del guerriero, dell’eroe, dell’uomo che ama. L’induismo nella sua millenaria saggezza giunge allo stesso punto.  La Baghavadgita, il capolavoro spirituale, filosofico ed etico dei Veda, che dall’India estese la sua influenza al pensiero buddista della Cina e poi al Giappone, indica la “fearlessness”, l’assenza di paura, come la prima qualità dell’eroe, di chi ha natura divina.

Un film interessante: Fearless
Il film Fearless di Peter Weir del 1993 racconta la storia di un uomo, Max Klein, interpretato da Jeff Bridges, che esce miracolosamente vivo da un disastro aereo. Nei pochi secondi che precedono il crash Max passa dal panico a una condizione di totale assenza di paura che prende il posto delle sue fobie e della sua vigliaccheria. Del film, nella lettura di un comune spettatore, passa inosservata la scoperta più interessante: l’indissolubile rapporto che si viene a dimostrare tra invulnerabilità, immortalità, e assenza di paura. Come gli antichi eroi, come Alessandro il Grande che attraversava immune nugoli di frecce, Max non muore perché ha gettato via fino all’ultimo atomo di paura. Morte psicologica e morte fisica sono una sola cosa. Chi ha eliminato le morti interne non può morire.  Ma questo sembra sfuggire anche allo stesso Weir e il suo racconto  perde l’opportunità di farci attraversare quello spartiacque psicologico che ha da sempre diviso gli eroi e i semidei dal mare buio della massa umana. Al film resta il compito, svolto in modo grossolano, di farci immaginare che cosa accadrebbe nell’esistenza di un uomo che diventa fearless.  Tutta la vita di Max, che era costruita intorno alla sua debolezza e aveva come architrave la paura, viene stravolta. Quell’uomo, come il personaggio pirandelliano di  “uno, nessuno e centomila”, non può più tornare alla sua professione, né vivere nel tradimento, nel compromesso, di cui è fatto il suo rapporto con la moglie, con il figlio, con gli altri.
Egli diventa un enigma, un alieno dal comportamento incomprensibile, il rappresentante di un’altra specie. Solo quando ritorneranno le sue paure e la sua pusillanimità, simboleggiate dal ristabilirsi della sua mortale allergia alle fragole, potrà riprendere la sua vita di sempre con soddisfazione finale degli spettatori che non vedono quanto infelice sia questo “happy end” e escono dalla sala rinfrancati dal ritorno del protagonista alla “normalità”, alla sua vita fatta di compromessi, di limiti e paure. Lasciata trapelare per un attimo, Weir si affretta a esorcizzare la terribile eventualità che un uomo possa diventare integro, un essere senza paura. Un individuo,   


L’Arte del sognare
C’è per l’uomo una sola possibilità di sperimentare l’assenza di tempo: vivere nell’attimo. E’ l’arte del sognare, the art of self-discovery. Entrare in se stessi, osservarsi, conoscersi è la cosa più preziosa nella vita di un uomo. Potenziare la capacità di vivere ‘qui ed ora’ è la disciplina di un’umanità che aspira a una vita senza limiti. Essere presenti a se stessi, mantenere costante l’attenzione senza mai differire dall’attimo. Ecco il segreto dell’assenza di tempo. Diventare abitanti di “Never Never Land”, dell’”Isola che non c’è” e che pure esiste là dove il tempo è bandito, nell’eternità del qui ed ora. Dobbiamo allenarci a uscire dal tempo quanto più spesso è possibile mentre apparentemente conduciamo la vita di ogni giorno, sfuggire a Crono, smettere di essere figli dell’ansia, della fretta, della paura. Occorre essere presenti. E quando ci accorgiamo di esserci perduti, di non essere presenti, siamo presenti.
Con il venir meno della vigilanza, immersi nella routine del lavoro, presi nel tran-tran della nostra vita ordinaria, dimentichiamo. Come al cedere di un argine, preoccupazioni, ansietà, immaginazioni negative ci attaccavano riducendoci alle proporzioni di un nano psicologico mostruosamente piccolo e tremante. Solo ogni tanto, come ‘risvegliandoci’ da un incubo, ci accorgiamo di essere ridotti a un colabrodo. Da mille ferite nell’essere disperdiamo la vita.
Attraverso l’autosservazione un uomo entra nei meandri più oscuri del suo essere, come Teseo, per eliminare il mostro da cui origina ogni altra sciagura della nostra vita: la paura. La paura è tempo e il tempo è paura. La paura è assenza di amore. Se cè amore non può esserci paura, e viceversa. Solo allora ci sarà una vera trasformazione, e l’uomo troverà un vero significato al suo esistere.

                                                              


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