giovedì 9 giugno 2016

"I PROBLEMI SONO OVUNQUE. E LE SOLUZIONI?" di Stefano D'Anna

L’umanità è rinchiusa in un labirinto; da sempre langue in una prigione di ripetitività senza trovare soluzione ai suoi millenari problemi. Ma proprio dal mito di Dedalo, l’uomo prigioniero della sua stessa creazione, arriva l’indicazione di una possibile via di fuga. La soluzione è il problema visto dall’alto. La via di Icaro.
 Il mito di Dedalo, l’uomo prigioniero della sua stessa creazione, di origine cretese-micenea, si perde nella notte dei tempi ed è il più antico che la nostra civiltà ricordi. Non c’è nell’immaginario della società occidentale un’idea archetipa più emblematica della nostra condizione. L’umanità è rinchiusa in un labirinto; da sempre langue in una prigione di ripetitività senza trovare soluzione ai suoi millenari problemi. Ma proprio dal mito di Dedalo e del labirinto arriva l’indicazione di una possibile via di fuga. La soluzione è il problema visto dall’alto. La via di Icaro.
Minosse ci chiuse ogni via
ma il cielo non ci potè chiudere
(Ovidio – Ars Amatoria)



La stirpe di Sisifo
Molti sono i malanni, e molte e gravi sono le sfide globali che ci fronteggiano: dall’inquinamento del pianeta alla povertà endemica di intere regioni, dalla morte per fame di un bambino ogni sette secondi alla criminalità, ai mille conflitti e focolai di tensione tra paesi ed etnie. La realtà dell’uomo senbra avere come caratteristica dominante la problematicità. Tutti sono alla ricerca di soluzioni. Gli uomini, i governi, le civiltà, vorrebbero conoscere la via d’uscita dal labirinto, possedere il filo d’Arianna o le ali di Icaro.
Perfino il fenomeno della fame nel mondo si è aggravato. Pur disponendo dei mezzi e delle tecniche più moderne, paradossalmente, oggi produciamo meno cibo per il terzo mondo di quarant’anni fa.
Siamo della stirpe di Sisifo. Da millenni sospingiamo in salita problemi pesanti come macigni per poi vederli rovinare a valle. Li spostiamo nello spazio, o li posponiamo nel tempo, e chiamiamo questo soluzione. Eravamo inadeguati nell’età della pietra quando potevamo contare solo sulle nostre mani nude e la selce e lo siamo ancora oggi, nell’età digitale, con a disposizione energia atomica e Internet. E’ ora di riconoscere la causa della nostra impotenza.

La soluzione è il problema visto dall’alto


L’ipotesi su cui abbiamo è che problema e soluzione non sono opposte polarità dell’esistenza ma i profili di un’unica realtà. Se fossimo capaci di innalzarci nell’essere, se potesssimo ergerci al di sopra del piano della visione ordinaria, ci accorgeremmo che la soluzione non è divisa dal problema. Essi sono la stessa ed unica cosa. C’è solo una differenza di livelli. La soluzione è il problema visto dall’alto.
La scoperta si sta rivelando di immenso valore pratico nella preparazione di una nuova generazione, uomini visionari, sognatori pragmatici che non credono più nella ricerca di una soluzione esterna ma nella propria capacità di essere la soluzione.
Non esiste un sentiero da scegliere, ma solo la fiducia in se stessi e nella propria integrità.
E’ la tua visione che crea il cammino, è il tuo passo che crea il sentiero. Un leader non ha bisogno di scegliere una direzione perché lui è la direzione, l’inventore del sogno che si sta svolgendo e che prende le sembianze della realtà.  (Il Dreamer)
Questi uomini sanno che quello che gli altri comunemente chiamiamo problemi sono in realtà soluzioni in incognito, sono guarigioni non riconosciute. La soluzione c’è sempre, arriva insieme al problema, è anzi tutt’uno con esso, ma per raggiungerci deve attraversare la nostra psicologia conflittuale, strati e strati di zavorra emozionale, deve entrare in mondi sottostanti dove non può che assumere aspetti problematici. Solo col tempo, talvolta, riusciamo a riconoscere la soluzione laddove avevamo visto solo il problema.

Aspettando Godot
L’uomo cerca fuori di sè. Corre e si affanna per tutta la vita inseguendo soluzioni esterne che nel tempo si trasformano a loro volta problemi, formando un circolo perverso senza fine. Per un destino infelice non sapremo mai che fuori di noi non c’è nulla e nessuno che può aiutarci. Aspetteremo per sempre Godot (God-ot), crederemo in un deus ex machina che possa risolverci dall’esterno, senza mai realizzare che la soluzione siamo noi! Come renne, inseguiremo la fragranza di muschio, quell’essenza che ci inebria, senza mai scoprire che essa non è fuori ma è secreta dalle nostre stesse ghiandole.
L’uomo cerca la libertà, la felicità, l’amore, cerca soluzioni fuori di sé, ma il viaggio del figliuol prodigo non è esterno… è un’avventura interiore, è il viaggio di ritorno all’unità dell’essere. L’uomo incessantemente tenta questa impresa: la riconquista della sua integrità, di uno stato di completezza, di unità interiore, ma niente sembra possa riportarlo nel suo paradiso perduto.

L’arte di decidere
Tra tutti gli organismi, le imprese soprattutto, per loro natura, vivono come arche flagellate da un oceano di problemi. La loro vita potrebbe definirsi un insieme di intervalli di apparente successo tra una crisi e l’altra, fino all’ultima che ne segnerà il declino e la morte. Consapevoli della loro fragilità e vulnerabilità, le organizzazioni sono continuamente alla ricerca delle soluzioni e del modo migliore per prendere le decisioni più giuste, sotto le più varie circostanze.
Dalla esigenza di avere guide-lines da seguire nel prendere decisioni, un rituale che possa placare questa stremante, stressante condizione di continua incertezza, sono nate le tecniche decisionali e di “problem solving”. Non c’è programma di executive education, o master in business administration che si rispetti, e neppure il più striminzito certificate in management, che non preveda almeno un insegnamento, con relativo esame, di decision making. Scopo di questi corsi è di dotare il manager di un ventaglio di tecniche capaci di assisterlo nell’individuare le possibili soluzioni e saperne valutare svantaggi e limiti, punti di forza e debolezze.

Il gut-feeling. Decidere d’istinto
Da Harvard in giù, dai College della heavy Leage americana alle 18 più blasonate università inglesi del Russel Group, negli ambienti accademici e scientifici di tutto il mondo domina la convinzione che la soluzione è qualcosa che è lì, fuori di noi, come un porcino o un tartufo che aspetta solo di essere trovato. Se solo sapessimo  come  approcciarla, se avessimo le giuste tecniche, ognuno potrebbe scoprire la via d’uscita, la soluzione, essere un decision maker, un leader. Questa fede di radici illuministe e settecentesche nella razionalità dell’uomo e nelle sue facoltà di discernere tra tutte quelle possibili la decisione più giusta, è tanto erronea quanto indiscussa. La realtà è che, se abbandoniamo le torri d’avorio accademiche e mettiamo il naso fuori dalle aule, scopriamo che le decisioni, nei moderni contesti, negli scenari ad alta competitività, sono prese in tutt’altro modo.
Al di fuori delle decisioni di routine su questioni semplici che possono rientrare nella discrezionalità di un impiegato, per le questioni più vaste e complicate, ed in genere nei processi decisionali di sistemi complessi, dove le variabili in gioco sono innumerevoli, come le grandi multinazionali, l’unica soluzione è l’istinto. 
“Un uomo puntato verso l’alto, impeccabilmente teso al suo miglioramento, può trovare soluzioni a  situazioni apparentemente inestricabili, trasformare le avversità in eventi di ordine superiore “.

La decisione di Washington
Verso la fine del 1776, reduce da una serie di sconfitte: Harlem Heights, White Planes, culminate nell’abbandono di New York, l’esercito americano è allo sbando, stremato, privo di tutto. Inseguito da 20.000 “giubbe rosse”, riposate e ben equipaggiate, Washington cerca scampo a Sud, verso il New Jersey. Il suo scopo è salvare i suoi giovanissimi soldati che sarebbero stati impiccati o passati a fil di spada, giustiziati come rivoltosi. Gli inglesi non riconoscendoli come un esercito nemico, non facevano prigionieri. Alla vigilia di Natale arriva sulle sponde del Delaware; requisisce tutte le barche che riesce a trovare e lo attraversa sperando che il fiume non geli completamente e possa rallentare gli inseguitori.
Tragettati con turni massacranti tutti i suoi uomini, giunto dall’altra parte, George Washington riceve un notizia ferale: Trenton, uno degli ultimi baluardi ancora in mano ai patrioti, è stato preso da un esercito di mercenari tedeschi al servizio degli inglesi. 500 patrioti sono stati giustiziati.
A quel punto, con una decisione che non ha nulla di razionale e che passerà alla storia, il Generale Washington riattraversa il fiume in tre colonne e va ad attaccare Trenton il giorno di Natale del 1776. La conquista in un’ora, usando le baionette, in assenza di munizioni. E’ l’inizio di quella che gli storici avrebbero poi chiamato “Christmas Campaign” che sovvertì le sorti della guerra fino alla vittoria di Yorktown e alla nascita degli Stati Uniti d’America.

Prima di qualunque soluzione viene il nostro cambiamento.
Chi sa produrre intenzionalmente in sé il più piccolo innalzamento dell’essere sposta montagne e si proietta come un gigante nel mondo esterno.
Intervenendo sui nostri stati, sulla qualità dei nostri pensieri, sui modi di sentire, circoscrivendo le emozioni negative, denutrendo alcuni e alimentandone altri, non solo modifichiamo la nostra attitudine, quindi il nostro rapporto con gli eventi che ci arrivano dal mondo esterno, cioè il nostro modo di reagire, ma anche la natura stessa degli eventi che si susseguono giorno dopo giorno.
“Solo un uomo capace di puntare tutto su se stesso, solo un uomo che ‘vuole’, che chiede e cerca di cambiare con tutte le sue forze, può farcela” - intervenne il Dreamer arrestando quella mia caduta - “E anche se agli occhi dell’umanità ordinaria egli appare un temerario, una persona che vive ad alto rischio, o addirittura un incosciente, un uomo guidato dalla integrità e dalla serietà è costantemente accompagnato da questo ‘senso di salvezza’. Solo lui sa che in realtà non sta rischiando nulla. Nel business, nelle imprese apparentemente più temerarie, chi ha questa certezza non può essere attaccato, non può fallire. Qualunque cosa tocchi si arricchisce e moltiplica; sotto qualunque circostanza, anche la più disperata, trova sempre la soluzione. E ha sempre successo perché lui stesso é la soluzione.

Decidere
Nell’etimo stesso della parola decidere c’è qualcosa di arcano. Che la radice sia caedere, cadere, abbattere, o prevalga invece l’elemento cida, cidium, eliminare, vi si sente racchiuso un terribile monito. Quella che pensiamo sia la nostra facoltà più nobile, indissolubilmente legata al libero arbitrio e alla volontà, nasconde la caduta, la disfatta.
Uno dei pregiudizi più diffusi, e in verità l’architrave su cui poggia la comune descrizione del mondo, è che esistano decisioni oggettive che tutti potrebbero prendere se avessero a disposizione tutte le informazioni necessarie e le tecniche decisionali per poterle vagliare, per leggerle e pesare.
In verità, la cosa più straordinaria da scoprire sulle decisioni e sui processi decisionali è che non esitono decisioni oggettivamente buone o valide in assoluto. Esse dipendono dall’uomo che le prende.
Difficilmente saremmo qui a discutere di America se la certezza nel più errato e strampalato dei calcoli non avesse sostenuto Cristoforo Colombo che, fino alla morte, restò convinto di avere trovato la via alle Indie. E i poveri indiani d’America portano ancora, registrato per sempre nel nome, il retaggio di quella meravigliosa erronea certezza.
“Nel mondo degli eventi, nel mondo degli opposti, non puoi incontrarti con la soluzione. La soluzione non è sullo stesso piano del problema.
“Solution comes from above and not in time! Bisogna sapere come entrare nel mondo delle soluzioni. Quando ti innalzi nell’essere tutto quello che ti era apparso nebuloso diventa chiaro e gli apparenti problemi che sembravano montagne insuperabili si rivelano lievi gibbosità...”.
(Il Dreamer)
Per cambiare la realtà bisogna cambiare il sogno
Da millenni non succede nulla. I problemi planetari, dalla povertà alla criminalità, fino alla conflittualità e alle guerre, sono gli stessi di sempre, nell’età della pietra come nell’età digitale. Eppure ci illudiamo di migliorare.  
‘Migliorare’ è la parola d’ordine di chi vuole lasciare tutto com’è; di chi indulge in un modo di pensare obsoleto, privo di vitalità. Credere che il mondo possa essere migliorato dall’esterno è la convinzione fideistica di un’umanità che non ha la forza di affrontare alla radice il suo male. Occorre una rivoluzione del pensiero. Un capovolgimento. Per cambiare la realtà bisogna cambiare il sogno. Solo l’individuo può farlo. 
Il tempo curva, e l’uomo e tutte le civiltà da lui create curvano e degradano con una ciclicità che li riporta sempre al punto di partenza, al passato, mentre hanno l’illusione di andare verso il futuro. La soluzione, nella vita di un uomo come nella storia di una civiltà, non è quindi mai nel tempo ma in un ‘tempo verticale’, in un tempo senza tempo, in un innalzamento della qualità del pensiero che può avvenire solo in questo istante.
Solo gestendo l’attimo sospeso tra il nulla e l’eternità l’umanità potrà modellare il suo destino, creare eventi di ordine superiore”.
I Greci antichi avevano per questo sognato città dove dall’archiettura ai sublimi monumenti esposti nelle piazze, dal teatro, alla musica, allo sport, tutto era al servizio dell’essere, del suo innalzamento verso il mondo delle idee, delle soluzioni. Ma soprattutto la Grecia classica, sempre allo scopo di accedere a zone di libertà, dove gli uomini diventano la soluzione, inventò le università, creò scuole di pensiero che nascevano intorno a un maestro, presupponevano la sua vicinanza con i discepoli; sorgevano in luoghi incantevoli scelti per la magia della loro storia. Non a caso erano poste sempre vicino a fiumi e a fonti d’acqua. L’Accademia si trovava in prossimità del Cefiso, il Liceo, ad est di Atene, era lambito dalle acque dell’Eridano e il Cinosarge, a sud della città, dove insegnò il cinico Antistene, era vicino all’Ilisso. L’acqua, oltre che simbolo di vita e di conoscenza, serviva per le abluzioni. In queste scuole la cultura del corpo e dello spirito erano i due profili della stessa realtà, indivisibile.
Se sapessimo ridare centralità all’individuo, metterlo al centro di ogni attenzione, potremmo cominciare a guarire l’umanità, cellula per cellula.


La nostra civiltà deve rifondare l’educazione, ricreare Scuole e Università dell’essere; dobbiamo ritornare alle nostre radici, attingere di nuovo a quella saggezza, a quell’amore per la bellezza e per la vera sapienza che è la conoscenza di sé, la soluzione.
“Noi abbiamo regredito dal meraviglioso progetto dell’Accademia e dal “sogno” di Platone. Le università del futuro faranno quello che oggi non fanno, insegnare l’arte del “self-discovery”. Ogni studente è una luce che aspetta di accendersi per disperdere l’oscurità” – ha detto Ben Okri, poeta e scrittore nigeriano, educato a Cambridge, concludendo sabato scorso la storica conferenza del Times “A cosa servono le università?”

(Da La Scuola Degli Dei di Stefano E. D’Anna)

“Diventa la soluzione... dentro!” - comandò il Dreamer - Fuori, non c’è nessun problema da risolvere… né un cattivo da cui difendersi o un nemico da combattere. Per dare una risposta al mondo devi diventare la soluzione... Entra in una sincerità, nella semplicità, nella leggerezza, nella luminosità del tuo essere... Se sarai capace di guardare il ‘gioco’ dall’alto, scoprirai che per un uomo integro la soluzione arriva sempre prima del problema.




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