Messo faccia a faccia con l’ignoto, col fiato sospeso sul filo della sua precarietà, l’uomo ha da sempre
cercato di sopire le sue paure del futuro imbrigliando il tempo con la falsa sicurezza di piani e previsioni. Eppure sin dall’antichità aveva avuto un chiaro monito: «Conosci te stesso»
Il mese di gennaio, col quale inizia ogni nuovo anno, deve il suo nome a Janus, o Giano bifronte, il dio che la mitologia romana raffigurava con due facce contrapposte, l’una rivolta al passato e all’anno trascorso, l’altra rivolta al futuro.
Figura mitica emblematica in bilico tra due abissi di tempo, capace di contemplare passato e futuro, senza appartenere né all’uno né all’altro. Le porte del grande tempio dedicato a Giano, chiuse in tempo di pace, si spalancavano e restavano aperte in tempo di guerra. Anche questa funzione assegnata al dio è un riflesso della coscienza divisa tra il sì e il no che da sempre si combattono dentro di noi, e il nostro pensiero conflittuale che non sa esprimere il superiore se non attraverso la negazione del sottostante, attraverso il suo opposto: l’infinito attraverso il finito, l’immortalità attraverso la morte, e così l’impeccabilità, l’invulnerabilità.
Tutta la nostra scienza nasce anch’essa dalla contrapposizione di due concetti: vero e falso (filosofia), buono e cattivo (etica), bello e brutto (estetica) che è infine il modo stesso in cui la nostra mente funziona per capire il mondo. Un po’ come ottenere una scintilla per effetto dello strofinio di due selci tra le mani di un selvaggio. O se vogliamo scegliere una metafora più moderna, come la logica binaria rappresentata dai bit di un computer. Non deve quindi sorprenderci se per effetto di questa innata bipolarità, che il mito rappresenta con il Giano bifronte, il mondo si presenta come il fedele riflesso del nostro pensiero conflittuale.
"HO SOGNATO UNA RIVOLUZIONE INDIVIDUALE. CAPACE DI CAPOVOLGERE I PARADIGMI MENTALI DELLA VECCHIA UMANITA' E LIBERARLA PER SEMPRE DAL DUBBIO, DALLA PAURA E DAL DOLORE."
mercoledì 30 aprile 2014
sabato 26 aprile 2014
"Difendere il proprio Sogno" di Vega Roze
Difendere il proprio Sogno
Chiunque abbia un Sogno e stia lavorando incessantemente per
realizzarlo sa che questo Sogno va difeso.
Difeso da chi? In primo luogo da tutte quelle falle dell’essere
che possono creare ostacoli alla sua realizzazione.
Nel maggior parte dei casi
la forza di un Sogno è il suo “apparire impossibile.”
Il Sognatore sa che le sue idee sono controcorrente, che la
sua visione trascende il visibile e che egli stesso è l’unica persona in grado
di creare le giuste condizioni per la materializzazione della propria realtà.
Definiamo la realtà con questa formula: S+T= R (Sogno più il
tempo uguale realtà).
Ciascuno di noi sogna incessantemente e vede sempre i propri
sogni realizzarsi, nel bene e nel male.
Nel tempo, tutto ciò in cui abbiamo fermamente creduto
finisce per realizzarsi, vinciamo sempre tutti in un modo o nell’altro. Per
questo è importante restare ancorati al proprio Sogno giorno per giorno, minuto
per minuto senza indulgere in dubbi e paure.
L’affermazione della propria identità, la scoperta del
nostro vero Essere porterà come conseguenza l’incontro con le parti più buie
della nostra coscienza. Questo manifesterà attacchi e lotte nel mondo del
visibile,per questo motivo imparare a difendere il proprio Sogno è di vitale importanza se si
vuole conseguire la sua realizzazione.
E’ importante ricordare che la differenza tra un Sognatore
ed un uomo ordinario è che il Sognatore sogna coscientemente, l’uomo ordinario
no.
Ogni volta che permettiamo alle emozioni negative di
prendere il sopravvento, che ci perdiamo in pensieri distruttivi e profezie del
disastro stiamo auto-boicottando il Sogno.
venerdì 25 aprile 2014
"Perdonarsi dentro." Di Stefano D'Anna
Estratto dal Libro: "La Scuola degli Dei" di Stefano D'Anna
Il tramonto lanciava i suoi ultimi bagliori. Nel cobalto digradante del cielo Orione era già visibile. La temperatura si era abbassata improvvisamente ma il Dreamer non diede segno di risentirne né di voler rientrare. Tutto indicava che stava per aprirsi un nuovo, importante capitolo del mio apprendistato. Tirai fuori
penna e taccuino, deciso a prendere nota di ogni Sua parola nonostante il buio incipiente in cui il terrazzo stava rapidamente sprofondando. Quel gesto mi fece sentire immediatamente a mio agio. Capii l’importanza di avere sempre con me carta e penna. Carta e penna significava ri-cordare, recuperare, raccogliere parti di me disperse nel mondo, lontano da Lui.
Scrivere mentre Gli ero davanti, annotare le Sue parole, significava entrare in punta di piedi in zone inaccessibili dell’Essere. La Sua voce mi colse in flagrante.
«Per conquistare quella speciale condizione dell’Essere fatta di libertà, di conoscenza, di potere… occorrono anni di lavoro su se stessi… occorre ‘perdonarsi dentro’» disse, sottolineando con una particolare inflessione della voce questa espressione che subito mi sembrò estranea al carattere
guerriero ed al linguaggio inesorabile del Dreamer.
Con uno sguardo si accertò che stessi annotando fedelmente le Sue parole. Attese che completassi, poi continuò:
«‘Perdonarsi dentro’ non è l’esame di coscienza di un santo stupido, ma il vero fare di un uomo d’azione, il risultato di un lungo processo di attenzione… di autosservazione. Significa entrare nelle pieghe della propria esistenza là dove è ancora lacerata… Significa lavare e curare le ferite ancora aperte… saldare tutti i conti in sospeso… »
Poi, assumendo un atteggiamento teatralmente guardingo e abbassando la voce, come per cautelare un segreto, mi confidò:
Il tramonto lanciava i suoi ultimi bagliori. Nel cobalto digradante del cielo Orione era già visibile. La temperatura si era abbassata improvvisamente ma il Dreamer non diede segno di risentirne né di voler rientrare. Tutto indicava che stava per aprirsi un nuovo, importante capitolo del mio apprendistato. Tirai fuori
penna e taccuino, deciso a prendere nota di ogni Sua parola nonostante il buio incipiente in cui il terrazzo stava rapidamente sprofondando. Quel gesto mi fece sentire immediatamente a mio agio. Capii l’importanza di avere sempre con me carta e penna. Carta e penna significava ri-cordare, recuperare, raccogliere parti di me disperse nel mondo, lontano da Lui.
Scrivere mentre Gli ero davanti, annotare le Sue parole, significava entrare in punta di piedi in zone inaccessibili dell’Essere. La Sua voce mi colse in flagrante.
«Per conquistare quella speciale condizione dell’Essere fatta di libertà, di conoscenza, di potere… occorrono anni di lavoro su se stessi… occorre ‘perdonarsi dentro’» disse, sottolineando con una particolare inflessione della voce questa espressione che subito mi sembrò estranea al carattere
guerriero ed al linguaggio inesorabile del Dreamer.
Con uno sguardo si accertò che stessi annotando fedelmente le Sue parole. Attese che completassi, poi continuò:
«‘Perdonarsi dentro’ non è l’esame di coscienza di un santo stupido, ma il vero fare di un uomo d’azione, il risultato di un lungo processo di attenzione… di autosservazione. Significa entrare nelle pieghe della propria esistenza là dove è ancora lacerata… Significa lavare e curare le ferite ancora aperte… saldare tutti i conti in sospeso… »
Poi, assumendo un atteggiamento teatralmente guardingo e abbassando la voce, come per cautelare un segreto, mi confidò:
martedì 22 aprile 2014
"La Leggenda del padre di Buddha" di Stefano D'Anna
La storia non ha mai insegnato nulla all’uomo, pertanto dovremmo smettere di tramandare
gli orrori del passato. Sarebbe decisamente meglio insegnare ai
nostri figli che il tempo andato è polvere e che basta un soffio per farlo svanire nel nulla...
Historia magistra vitae est», affermava Cicerone nel De oratore. Ma può, la storia, essere davvero considerata una maestra di vita? Sin dall’infanzia ci portiamo dietro un timore reverenziale per gli eventi e i tempi andati, e per il passato in generale. In tutte le scuole del mondo, quasi per effetto di una cospirazione planetaria, i curricula scolastici impongono come obbligatoria una materia il cui scopo è quello di mantenere viva la memoria di ogni sorta di malvagità perpetrata da uomini nei confronti di altri uomini, fazioni contro altre fazioni, nazioni contro altre nazioni. Vero è che nulla abbiamo fin qui appreso da quella interminabile sequela di disastri che chiamiamo storia e nulla apprenderemo finché non avremo capito che i conflitti procedono dall’interno all’esterno. È forse arrivato il momento di renderci conto dell’assurdità di tramandare ai nostri figli una storia fatta di orrori, governata dal caso e dalla criminalità. So che la maggior parte delle persone obietterebbero che senza la memoria storica non potremmo evitare di commettere di nuovo gli stessi errori del passato. E allora, se veramente impariamo dalla storia, cosa pensare della Seconda guerra mondiale che segue a ruota la prima ripresentando gli stessi orrori in meno di una generazione?
Esiste un impulso viscerale nell’uomo che vuole far sopravvivere e perpetuare il passato, al punto che si potrebbe quasi dire che l’umanità non ha davanti a sé un vero futuro, ma solo un passato che si ripete, che ci mettiamo illusoriamente davanti sotto la falsa parvenza di futuro. Non sono l’esperienza e il ricordo di errori passati che possono trasformare l’umanità o cambiare il suo destino. Questa incapacità di imparare dalla storia spiega perché, attraverso i millenni, la nostra civiltà sia stata costantemente contraddistinta da un destino così terribile, e perché non esistono sogni. Non c’è un solo film o romanzo che tracci un quadro ottimistico del futuro della nostra specie, ma solo distopie, visioni apocalittiche e profezie di sventura. I temi esplorati da Aldous Huxley in Il mondo nuovo, da Orwell in 1984, da Ayn Rand in Inno, o in film quali Blade Runner, sono profezie di una società totalitaria e di soppressione dell’individualismo. Le nostre predizioni sono proiezioni delle nostre paure, dei nostri incubi di tirannie psicologiche in grado di contare ogni nostro respiro, e di un mondo governato dal potere oppressivo dei grandi apparati di produzione e di monopoli planetari. Guardando agli eventi storici da una prospettiva più alta, ci si rende conto che le guerre e le rivoluzioni, le crociate e le persecuzioni, l’ascesa e la caduta degli imperi non sono altro che la proiezione materiale.
gli orrori del passato. Sarebbe decisamente meglio insegnare ai
nostri figli che il tempo andato è polvere e che basta un soffio per farlo svanire nel nulla...
Historia magistra vitae est», affermava Cicerone nel De oratore. Ma può, la storia, essere davvero considerata una maestra di vita? Sin dall’infanzia ci portiamo dietro un timore reverenziale per gli eventi e i tempi andati, e per il passato in generale. In tutte le scuole del mondo, quasi per effetto di una cospirazione planetaria, i curricula scolastici impongono come obbligatoria una materia il cui scopo è quello di mantenere viva la memoria di ogni sorta di malvagità perpetrata da uomini nei confronti di altri uomini, fazioni contro altre fazioni, nazioni contro altre nazioni. Vero è che nulla abbiamo fin qui appreso da quella interminabile sequela di disastri che chiamiamo storia e nulla apprenderemo finché non avremo capito che i conflitti procedono dall’interno all’esterno. È forse arrivato il momento di renderci conto dell’assurdità di tramandare ai nostri figli una storia fatta di orrori, governata dal caso e dalla criminalità. So che la maggior parte delle persone obietterebbero che senza la memoria storica non potremmo evitare di commettere di nuovo gli stessi errori del passato. E allora, se veramente impariamo dalla storia, cosa pensare della Seconda guerra mondiale che segue a ruota la prima ripresentando gli stessi orrori in meno di una generazione?
Esiste un impulso viscerale nell’uomo che vuole far sopravvivere e perpetuare il passato, al punto che si potrebbe quasi dire che l’umanità non ha davanti a sé un vero futuro, ma solo un passato che si ripete, che ci mettiamo illusoriamente davanti sotto la falsa parvenza di futuro. Non sono l’esperienza e il ricordo di errori passati che possono trasformare l’umanità o cambiare il suo destino. Questa incapacità di imparare dalla storia spiega perché, attraverso i millenni, la nostra civiltà sia stata costantemente contraddistinta da un destino così terribile, e perché non esistono sogni. Non c’è un solo film o romanzo che tracci un quadro ottimistico del futuro della nostra specie, ma solo distopie, visioni apocalittiche e profezie di sventura. I temi esplorati da Aldous Huxley in Il mondo nuovo, da Orwell in 1984, da Ayn Rand in Inno, o in film quali Blade Runner, sono profezie di una società totalitaria e di soppressione dell’individualismo. Le nostre predizioni sono proiezioni delle nostre paure, dei nostri incubi di tirannie psicologiche in grado di contare ogni nostro respiro, e di un mondo governato dal potere oppressivo dei grandi apparati di produzione e di monopoli planetari. Guardando agli eventi storici da una prospettiva più alta, ci si rende conto che le guerre e le rivoluzioni, le crociate e le persecuzioni, l’ascesa e la caduta degli imperi non sono altro che la proiezione materiale.
domenica 20 aprile 2014
Perché è importante conoscere la Scuola e frequentarne i Corsi.
La Scuola degli Dei è un percorso di rinascita, di risveglio
a se stessi. Un luogo reale, non un racconto di fantasia. Gli insegnamenti
della Scuola viaggiando attraverso le epoche sono giunti fino a noi grazie al
lavoro incessante di alcuni uomini.
La Scuola apparirà sulla tua strada quando sarai pronto ad
uscire dal circolo ripetitivo di una vita meccanica costellata di dolore,
rabbia e bugie.
Quando un individuo decide di insorgere contro se stesso. Di
riprendersi il proprio paradiso perduto, quando a cuore aperto e con assoluta
sincerità ammette a se stesso le proprie mancanze sarà la Scuola a trovare lui
e non viceversa.
sabato 19 aprile 2014
"Pinocchio: la parabola evangelica del burattino fatto carne." di Stefano D'Anna
Si scopre una nuova lettura cristologica nella storia del burattino di Collodi tra padri falegnami, miracoli quotidiani, estremi sacrifici per l’umanità.
Pinocchio è il libro più letto al mondo, dopo la Bibbia e il Corano. La ragione è che dietro la superficie, travestito da favola, si nasconde il più audace testo mistico della letteratura mondiale. Con l’ironia spietata e sublime di una «black fable», Pinocchio racconta la parabola impietosa dell’avventura umana, il viaggio
iniziatico dell’uomo, da pupazzo guidato dai fili invisibili delle sue pulsioni a uomo vero, dotato di volontà. Se la letteratura universale, da Aristofane a Beckett, conta innumerevoli grandi prosatori, forse non ce n’è mai stato uno così intelligente, ironico e defilato come Carlo Lorenzini, alias Collodi. Si sa. Siamo una specie suscettibile e anche violenta. Lorenzini scopre il più terribile dei segreti: l’umanità è fatta di milioni di
marionette, pupazzi biochimici e per di più bugiardi inguaribili. Il celebre burattino è in verità la caricatura ferocemente ironica di un’umanità menzognera, tirannicamente mossa dai fili dell’accidentalità, dalle emozioni negative e dall’infelicità del suo destino ineluttabile. Volendo rivelare la sua scoperta, decide di camuffarla da favola. E così passa alla storia come un autore per bambini piuttosto che come un antropologo, un
profondo conoscitore della nostra natura e dell’etologia umana.
Usando questo stratagemma ha potuto rivelarci la cruda verità senza sgradevolezza e senza rischiare che la sua opera fosse messa al
rogo, facendoci perfino sorridere delle disavventure di Pinocchio, lontani mille leghe dal riconoscere in lui l’immagine speculare del burattino biochimico cui si è ridotto l’uomo.
Pinocchio è il libro più letto al mondo, dopo la Bibbia e il Corano. La ragione è che dietro la superficie, travestito da favola, si nasconde il più audace testo mistico della letteratura mondiale. Con l’ironia spietata e sublime di una «black fable», Pinocchio racconta la parabola impietosa dell’avventura umana, il viaggio
iniziatico dell’uomo, da pupazzo guidato dai fili invisibili delle sue pulsioni a uomo vero, dotato di volontà. Se la letteratura universale, da Aristofane a Beckett, conta innumerevoli grandi prosatori, forse non ce n’è mai stato uno così intelligente, ironico e defilato come Carlo Lorenzini, alias Collodi. Si sa. Siamo una specie suscettibile e anche violenta. Lorenzini scopre il più terribile dei segreti: l’umanità è fatta di milioni di
marionette, pupazzi biochimici e per di più bugiardi inguaribili. Il celebre burattino è in verità la caricatura ferocemente ironica di un’umanità menzognera, tirannicamente mossa dai fili dell’accidentalità, dalle emozioni negative e dall’infelicità del suo destino ineluttabile. Volendo rivelare la sua scoperta, decide di camuffarla da favola. E così passa alla storia come un autore per bambini piuttosto che come un antropologo, un
profondo conoscitore della nostra natura e dell’etologia umana.
Usando questo stratagemma ha potuto rivelarci la cruda verità senza sgradevolezza e senza rischiare che la sua opera fosse messa al
rogo, facendoci perfino sorridere delle disavventure di Pinocchio, lontani mille leghe dal riconoscere in lui l’immagine speculare del burattino biochimico cui si è ridotto l’uomo.
martedì 15 aprile 2014
"Credere per Vedere" di Stefano D'Anna
"L'Arte di Sognare è il potere di ricordare il futuro."
In ogni epoca, uomini straordinari dotati di inflessibile determinazione e fiducia in se stessi, nonché di un prodigioso intuito, hanno trovato la forza per realizzare imprese impossibili. Colombo era convinto che viaggiando verso ovest avrebbe trovato una scorciatoia per arrivare a est. Il Presidente Juscelino Kubitschek decise il trasferimento della capitale federale da Rio de Janeiro e creò Brasilia in 2.000 giorni, strappandone il territorio alla foresta pluviale amazzonica. Ferdinand Marie de Lesseps fece scavare e rimuovere 100 miglia di deserto sabbioso per costruire il canale di Suez. Scipione a 24 anni ricostruì l’esercito dopo la terribile sconfitta di Canne, in cui i romani persero 100.000 uomini in un solo giorno.
Le più grandi conquiste scientifiche e sociali, e tutto ciò che di bello, utile e longevo ci è stato tramandato, sono state lo splendido dono di un singolo individuo – mai due o una legione; sono state il servigio reso all’umanità da uno di quei folli visionari cui dobbiamo tutto ciò che abbiamo e che siamo. Studiando le loro vite e le loro imprese, approfondendo i loro discorsi, mi sono chiesto da dove potessero mai trarre quella fiducia incrollabile in se stessi. Da dove attingevano la determinazione per concepire e intraprendere le loro missioni impossibili? Dalla cultura, dall’ambiente famigliare, dagli insegnamenti ricevuti, dal patrimonio genetico, oppure da altro?
In ogni epoca, uomini straordinari dotati di inflessibile determinazione e fiducia in se stessi, nonché di un prodigioso intuito, hanno trovato la forza per realizzare imprese impossibili. Colombo era convinto che viaggiando verso ovest avrebbe trovato una scorciatoia per arrivare a est. Il Presidente Juscelino Kubitschek decise il trasferimento della capitale federale da Rio de Janeiro e creò Brasilia in 2.000 giorni, strappandone il territorio alla foresta pluviale amazzonica. Ferdinand Marie de Lesseps fece scavare e rimuovere 100 miglia di deserto sabbioso per costruire il canale di Suez. Scipione a 24 anni ricostruì l’esercito dopo la terribile sconfitta di Canne, in cui i romani persero 100.000 uomini in un solo giorno.
Le più grandi conquiste scientifiche e sociali, e tutto ciò che di bello, utile e longevo ci è stato tramandato, sono state lo splendido dono di un singolo individuo – mai due o una legione; sono state il servigio reso all’umanità da uno di quei folli visionari cui dobbiamo tutto ciò che abbiamo e che siamo. Studiando le loro vite e le loro imprese, approfondendo i loro discorsi, mi sono chiesto da dove potessero mai trarre quella fiducia incrollabile in se stessi. Da dove attingevano la determinazione per concepire e intraprendere le loro missioni impossibili? Dalla cultura, dall’ambiente famigliare, dagli insegnamenti ricevuti, dal patrimonio genetico, oppure da altro?
lunedì 14 aprile 2014
"Conosci te stesso?" di Stefano D'Anna
Ci sono uomini grandiosi, che spaziano tra i pentagrammi dell’esistenza. E c’è una massa umana rassegnata a eseguire la stessa nenia, un motivo monotono appreso dall’infanzia e mai più
modificato. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo rivoluzionare la musica dentro noi stessi.
Conosci te stesso», il più celebre aforisma tramandatoci dall’antichità classica, inciso per millenni sul timpano del tempio di Delfi, è forse anche il più inusitato. La difficoltà di dargli concretezza dipende dal fatto che non ci è pervenuta un’informazione necessaria: la conoscenza di sé richiede prioritariamente lo studio di sé. E così queste tre parole di luminosa saggezza sono diventate un motto polveroso. In linea con questa premessa, desidero invitarvi a condurre un esperimento, il più interessante e proficuo che possiate fare: dedicare una giornata a dare attenzione a voi stessi, a osservarvi. Per semplicità e per efficacia, da qui in poi mi rivolgerò direttamente a quell’unico lettore tra voi, quel coraggioso che vorrà trasgredire le porte d’Ercole e affrontare questo straordinario viaggio alla scoperta di sé. Ascolta le parole che pronunci. Classificale. Individua quelle che ripeti più spesso. Osserva i sentimenti che provi. Classificali. Individua le tue reazioni emotive più ricorrenti. Osserva i pensieri che ti attraversano la mente durante questa tua giornata. Prendine nota e classificali. Scopri quelli più insistenti. Con un minimo di distacco ti accorgerai che quelli che credi pensieri sono in realtà preoccupazioni e dubbi. Scopri quelli che affiorano con più ostinazione. Infine, metti ordine nella varietà delle sensazioni fisiche che provi nella tua giornata. Una volta disposte in classi, ti accorgerai che anche queste si ripetono e che c’è poco di nuovo anche nelle tue sensazioni.
modificato. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo rivoluzionare la musica dentro noi stessi.
Conosci te stesso», il più celebre aforisma tramandatoci dall’antichità classica, inciso per millenni sul timpano del tempio di Delfi, è forse anche il più inusitato. La difficoltà di dargli concretezza dipende dal fatto che non ci è pervenuta un’informazione necessaria: la conoscenza di sé richiede prioritariamente lo studio di sé. E così queste tre parole di luminosa saggezza sono diventate un motto polveroso. In linea con questa premessa, desidero invitarvi a condurre un esperimento, il più interessante e proficuo che possiate fare: dedicare una giornata a dare attenzione a voi stessi, a osservarvi. Per semplicità e per efficacia, da qui in poi mi rivolgerò direttamente a quell’unico lettore tra voi, quel coraggioso che vorrà trasgredire le porte d’Ercole e affrontare questo straordinario viaggio alla scoperta di sé. Ascolta le parole che pronunci. Classificale. Individua quelle che ripeti più spesso. Osserva i sentimenti che provi. Classificali. Individua le tue reazioni emotive più ricorrenti. Osserva i pensieri che ti attraversano la mente durante questa tua giornata. Prendine nota e classificali. Scopri quelli più insistenti. Con un minimo di distacco ti accorgerai che quelli che credi pensieri sono in realtà preoccupazioni e dubbi. Scopri quelli che affiorano con più ostinazione. Infine, metti ordine nella varietà delle sensazioni fisiche che provi nella tua giornata. Una volta disposte in classi, ti accorgerai che anche queste si ripetono e che c’è poco di nuovo anche nelle tue sensazioni.
domenica 13 aprile 2014
“La malattia più grave dell’uomo è la dipendenza”
La sindrome di Narciso
“La tua fede più incrollabile... la tua convinzione più nociva, è che esista un mondo
esterno a te, qualcuno o qualcosa da cui dipendere, qualcuno o qualcosa che possa
darti o toglierti, eleggerti o condannarti” - disse il Dreamer.
“Se un guerriero credesse, anche solo per un attimo, in un aiuto esterno, perderebbe
all’istante la sua invulnerabilità” affermò. Poi tacque e chiuse gli occhi. Mi occupai
annotando le Sue ultime parole sul taccuino. Ma quella pausa si prolungava. Tentai di
superare l’imbarazzo della mia estraneità e della mia improvvisa superfluità rileggendo
mentalmente alcune parti dei miei appunti. Finalmente il Dreamer uscì dal Suo
silenzio e ad occhi chiusi recitò:
There is nothing out there...
There is no help coming from anywhere at all...
“La malattia più grave dell’uomo è la dipendenza” annunciò in tono severo.
Immediatamente entrai in uno stato di vigilanza. Nel corpo sentii senza possibilità di
errore l’importanza di questa affermazione e la centralità da assegnarle nel mio nuovo
sistema di convinzioni. “Non c’è danno più grave che dipendere dagli altri, dal loro
giudizio... Per liberarsi da tutto questo occorre una lunga preparazione...”.
Come avrei notato in seguito, osservando la mia attitudine in questa occasione e
in altre simili, quello che accettavo senza troppe resistenze, o che addirittura mi
trovava subito convinto, quando il Dreamer si riferiva all’umanità in generale, trovava
in me resistenze inespugnabili quando mi prendeva di petto e si rivolgeva a me in
prima persona..
“La tua fede più incrollabile... la tua convinzione più nociva, è che esista un mondo
esterno a te, qualcuno o qualcosa da cui dipendere, qualcuno o qualcosa che possa
darti o toglierti, eleggerti o condannarti” - disse il Dreamer.
“Se un guerriero credesse, anche solo per un attimo, in un aiuto esterno, perderebbe
all’istante la sua invulnerabilità” affermò. Poi tacque e chiuse gli occhi. Mi occupai
annotando le Sue ultime parole sul taccuino. Ma quella pausa si prolungava. Tentai di
superare l’imbarazzo della mia estraneità e della mia improvvisa superfluità rileggendo
mentalmente alcune parti dei miei appunti. Finalmente il Dreamer uscì dal Suo
silenzio e ad occhi chiusi recitò:
There is nothing out there...
There is no help coming from anywhere at all...
“La malattia più grave dell’uomo è la dipendenza” annunciò in tono severo.
Immediatamente entrai in uno stato di vigilanza. Nel corpo sentii senza possibilità di
errore l’importanza di questa affermazione e la centralità da assegnarle nel mio nuovo
sistema di convinzioni. “Non c’è danno più grave che dipendere dagli altri, dal loro
giudizio... Per liberarsi da tutto questo occorre una lunga preparazione...”.
Come avrei notato in seguito, osservando la mia attitudine in questa occasione e
in altre simili, quello che accettavo senza troppe resistenze, o che addirittura mi
trovava subito convinto, quando il Dreamer si riferiva all’umanità in generale, trovava
in me resistenze inespugnabili quando mi prendeva di petto e si rivolgeva a me in
prima persona..
sabato 12 aprile 2014
"Lezioni di Economi dal Vangelo" di Stefano D'Anna
Lezioni di Economia dal Vangelo
Alle parabole non si pongono domande, né da loro si possono chiedere risposte. Il loro fine è di ingannarci. La loro apparente semplicità, elude le nostre difese e permette ad un soffio di verità, a una goccia pura di infinito, di penetrare attraverso la dura scorza dei nostri pregiudizi e delle idee prese a prestito. Pregiudizi e idee dei nostri genitori e tutori, e maestri vari di sventura, diventate convinzioni e mai più messe in discussione. Il naufragio della mente è il trionfo della parabola.
La storia del buon samaritano (Luca 10:25) che dà soccorso a uno sconosciuto incappato nei briganti, e lo cura con olio e vino che sta portando al mercato, è una perla letteraria, dalla luce e dalla forma perfetta. Come tutti i capolavori ha una bellezza evidente a chiunque, ma questo semplice racconto è in realtà una macchina prodigiosa fatta per attraversare gli oceani del tempo e nasconde una profondità vertiginosa la cui intelligenza è riservata a pochi tra i pochi. Da venti secoli generazioni di dotti, asceti, studiosi, credenti ed esegeti continuano a leggerla eppure il suo rivoluzionario messaggio, capace di ribaltare e capovolgere la nostra visione del mondo, resta ancora pressoché sconosciuto.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per la medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita giunto in quel luogo lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versando olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui…. (Luca 10:25)
Se il Vangelo è il libro più letto, più tradotto al mondo, la spiegazione va ricercata ben oltre il fatto di essere il testo sacro del cristianesimo, e ben oltre i contenuti delle sue parabole, spesso banali, quando non addirittura infantili, tanto sono semplici. Il fatto è che quando lo apriamo, dovunque lo apriamo, apparentemente siamo noi a leggerlo, in realtà è il Vangelo a leggere noi. La sue parabole descrivono il nostro mondo interno, passano ai raggi X le nostre emozioni, i nostri processi mentali, fotografati nell’eternità dell’istante, mentre viaggiano nelle foreste dei neuroni, tra le pareti cave del nostro cranio, alla velocità del pensiero.
Della storia del buon samaritano tenteremo quindi una lettura a rovescio, con la disposizione di avere tra le mani un mezzo per studiarci e aiutarci a capire chi siamo. Il protagonista di questa storia non incontra un uomo derubato, un estraneo trovato ferito e abbandonato sulla strada. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita che passano oltre, senza fermarsi, è consapevole di incontrare se stesso, di vedere le proprie ferite. Quelle che si ferma a lenire, a curare, sono in realtà le sue ferite interne.
Il buon samaritano non cura le ferite dell’altro perché è buono o caritatevole, ma perché è consapevole di curare attraverso lui le proprie ferite. Se lo facesse per bontà potrebbe ben essere un “santo stupido” le cui azioni possono dare un sollievo momentaneo a qualcuno ma lasciano il mondo esattamente nelle condizioni disastrose di sempre.
Non a caso il “buon samaritano” è simboleggiato da un commerciante, un uomo abituato a capire dov’é il suo profitto. Lo sappiamo dal fatto che trasporta olio e vino da vendere al mercato. E’ quindi un businessman l’uomo che penetra il segreto della carità paolina. L’intellettuale, rappresentato dallo scriba, vede l’uomo abbandonato sul ciglio della strada e passa oltre senza neppure fermarsi. L’uomo spirituale, il religioso, rappresentato dal levita, vede il bisognoso e passa dall’altro lato della strada senza neppure sfiorarlo. Essi sono le figure simboliche dell’umanità ordinaria, ma anche la metafora della parte più retriva di noi, quell ache crede che gli altri e le loro ferite siano esterne e non abbiano niente a che fare con noi.
E se pure si fermassero a soccorrere materialmente gli altri, la loro azione mancherebbe della condizione fondamentale, di quello stato di intelligenza, di quell’animus potentemente echeggiante nelle parole di Paolo e che egli chiama carità. “E se anche donassi tutte le mie sostanze ai poveri e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non avessi la carità, niente mi giova”.
Solo il samaritano riconosce che il dare agli altri è il più straordinario mezzo per dare a se stesso, per integrarsi. E’ questo egoismo luminoso, la consapevolezza che dare significa dare a se stessi, che santifica il suo aiuto e lo rende prezioso e guaritore per sé e per gli altri.
Se il Vangelo è il libro più letto, più tradotto al mondo, la spiegazione va ricercata ben oltre il fatto di essere il testo sacro del cristianesimo, e ben oltre i contenuti delle sue parabole, spesso banali, quando non addirittura infantili, tanto sono semplici. Il fatto è che quando lo apriamo, dovunque lo apriamo, apparentemente siamo noi a leggerlo, in realtà è il Vangelo a leggere noi. La sue parabole descrivono il nostro mondo interno, passano ai raggi X le nostre emozioni, i nostri processi mentali, fotografati nell’eternità dell’istante, mentre viaggiano nelle foreste dei neuroni, tra le pareti cave del nostro cranio, alla velocità del pensiero.
Della storia del buon samaritano tenteremo quindi una lettura a rovescio, con la disposizione di avere tra le mani un mezzo per studiarci e aiutarci a capire chi siamo. Il protagonista di questa storia non incontra un uomo derubato, un estraneo trovato ferito e abbandonato sulla strada. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita che passano oltre, senza fermarsi, è consapevole di incontrare se stesso, di vedere le proprie ferite. Quelle che si ferma a lenire, a curare, sono in realtà le sue ferite interne.
Il buon samaritano non cura le ferite dell’altro perché è buono o caritatevole, ma perché è consapevole di curare attraverso lui le proprie ferite. Se lo facesse per bontà potrebbe ben essere un “santo stupido” le cui azioni possono dare un sollievo momentaneo a qualcuno ma lasciano il mondo esattamente nelle condizioni disastrose di sempre.
Non a caso il “buon samaritano” è simboleggiato da un commerciante, un uomo abituato a capire dov’é il suo profitto. Lo sappiamo dal fatto che trasporta olio e vino da vendere al mercato. E’ quindi un businessman l’uomo che penetra il segreto della carità paolina. L’intellettuale, rappresentato dallo scriba, vede l’uomo abbandonato sul ciglio della strada e passa oltre senza neppure fermarsi. L’uomo spirituale, il religioso, rappresentato dal levita, vede il bisognoso e passa dall’altro lato della strada senza neppure sfiorarlo. Essi sono le figure simboliche dell’umanità ordinaria, ma anche la metafora della parte più retriva di noi, quell ache crede che gli altri e le loro ferite siano esterne e non abbiano niente a che fare con noi.
E se pure si fermassero a soccorrere materialmente gli altri, la loro azione mancherebbe della condizione fondamentale, di quello stato di intelligenza, di quell’animus potentemente echeggiante nelle parole di Paolo e che egli chiama carità. “E se anche donassi tutte le mie sostanze ai poveri e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non avessi la carità, niente mi giova”.
Solo il samaritano riconosce che il dare agli altri è il più straordinario mezzo per dare a se stesso, per integrarsi. E’ questo egoismo luminoso, la consapevolezza che dare significa dare a se stessi, che santifica il suo aiuto e lo rende prezioso e guaritore per sé e per gli altri.
Quella del buon samaritano è la parabola del ricordo di sé... Rappresenta un momento dell’anima, quando un barlume di consapevolezza ci fa realizzare che qualunque incontro è un faccia a faccia con noi stessi, che quell’essere incappato nei briganti siamo noi, che le sue piaghe sono le paure, i dolori, i fallimenti, ancora nascosti nelle pieghe del nostro essere... sono i sensi di colpa e il magma di emozioni negative di cui non siamo consapevoli e che tuttavia controllano la nostra esistenza. Ma se quel malcapitato è chiamato “il prossimo”, allora… allora… La scoperta ci lascia col fiato sospeso, in preda a una vertigine del pensiero… Il tuo prossimo sei tu. L’altro, gli altri non esistono. Il sacerdote, il Levita non sono viandanti senza compassione ma nostri organi, funzioni interne che mostrano la loro inadeguatezza. La saggezza, la conoscenza, e perfino la religiosità dell’uomo comune non gli permettono di raggiungere questa profondità, questa sincerità con se stesso.
In tutti questi anni abbiamo incontrato gli altri senza alcuna consapevolezza di incontrare le nostre malattie, le nostre cadute, le nostre morti, senza mai realizzare che gli altri siamo noi... Gli altri sono le nostre paure, I nostri dubbi, i nostri sensi di colpa. In futuro, un’umanità guarita avrà scuole capaci di insegnare ai giovani che non c’è più grande avventura che incontrare gli altri e riconoscerli come proiezione della propria psicologia, la materializzazione dei nostri stati d’essere…
In tutti questi anni abbiamo incontrato gli altri senza alcuna consapevolezza di incontrare le nostre malattie, le nostre cadute, le nostre morti, senza mai realizzare che gli altri siamo noi... Gli altri sono le nostre paure, I nostri dubbi, i nostri sensi di colpa. In futuro, un’umanità guarita avrà scuole capaci di insegnare ai giovani che non c’è più grande avventura che incontrare gli altri e riconoscerli come proiezione della propria psicologia, la materializzazione dei nostri stati d’essere…
Quando incontrate gli altri siate gratitudine… in special modo quando incontrate i violenti, perché incontrandoli avete l’opportunità di risolvere la vostra violenza… quando incontrate i poveri perché riconoscendo in essi la vostra povertà potrete eliminarla dal vostro essere… quando incontrate gli ammalati perché attraverso essi potreste guarire da ogni malattia… in special modo quando incontrate i mortali per l’opportunità di riconoscere la nostra vera natura divina… immortale...
Questo libro è per Sempre.
“Questo Libro è per Sempre”.
“Questo libro è una mappa, un piano di fuga.
Il suo scopo è mostrarvi il percorso che un uomo comune ha eseguito per sfuggire al racconto ipnotico del mondo, alla descrizione lamentosa e accusatoria dell'esistenza, per deragliare dai solchi di un destino già tracciato.”
La Scuola degli Dei di Stefano D'Anna.
Chiunque sia in un percorso di lavoro su di sé sa benissimo che quando è il momento, arriva un libro
quel libro che serviva, segnato, destinato a noi, perfetto per la nostra evoluzione.
Chi è sulla via sa anche, che più passa il tempo e più questi libri aumentano di numero, come tanti mattoni che uno dopo l'altro ci danno la spinta per salire sul gradino successivo.
E così, ancora una volta ho incontrato un libro, consigliato da un amico e divorato in poco tempo, letto all'infinito, perso nell'attimo.
Il titolo è: “La Scuola degli Dei” e la prima pagina dice: "questo libro è per sempre."
Questa sì che è una promessa! Se è per sempre vuol dire che va vissuto adesso, per sempre è Ora. Leggendolo e studiandolo posso dire che la voce di queste pagine non solo è per Sempre ma è Inevitabile!
Il titolo è: “La Scuola degli Dei” e la prima pagina dice: "questo libro è per sempre."
Questa sì che è una promessa! Se è per sempre vuol dire che va vissuto adesso, per sempre è Ora. Leggendolo e studiandolo posso dire che la voce di queste pagine non solo è per Sempre ma è Inevitabile!
La trama dell'illusione planetaria è fitta e piena di opportunità, false, ci si perde pensando che la felicità sia legata alla vittoria nel mondo: avere questo, fare l'altro ma un essere è nato per essere il fare può esserne una conseguenza non obbligatoria e non vincolante per il raggiungimento della visione della vera realtà. Un Sognatore mi ha cercata, trovata e presa per mano, quale sorpresa nello scoprire che avevamo lo stesso Sogno e quanta combattuta serenità nel vedere che non poteva essere in altro modo. Il mio Sogno è sempre stato Vincere sul Mondo e non nel mondo, bene ..cara Vega chiedi e ti sarà dato! Tormenti, paure, scomode verità sulla mia esistenza, tutte racchiuse apparentemente imprigionate tra le pagine di un libro, un libro che sa tutto di me... tutto di noi.
Vorrei raccontare di questo piano di fuga, vorrei dirvi come ci sono arrivata ma a Scuola con gli Dei bisogna andarci e quindi vi invito ad entrare nella mia classe...
"Sogna la libertà...la libertà da ogni limite...Tu sei il solo ostacolo a tutto quello che puoi desiderare. Sogna...Sogna...Sogna senza posa! Il sogno è la cosa più reale che ci sia."
Vega Roze
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