mercoledì 30 aprile 2014

"Scuole dell'Essere" di Stefano D'Anna

Messo faccia a faccia con l’ignoto, col fiato sospeso sul filo della sua precarietà, l’uomo ha da sempre
cercato di sopire le sue paure del futuro imbrigliando il tempo con la falsa sicurezza di piani e previsioni. Eppure sin dall’antichità aveva avuto un chiaro monito: «Conosci te stesso»

Il mese di gennaio, col quale inizia ogni nuovo anno, deve il suo nome a Janus, o Giano bifronte, il dio che la mitologia romana raffigurava con due facce contrapposte, l’una rivolta al passato e all’anno trascorso, l’altra rivolta al futuro.
Figura mitica emblematica in bilico tra due abissi di tempo, capace di contemplare passato e futuro, senza appartenere né all’uno né all’altro. Le porte del grande tempio dedicato a Giano, chiuse in tempo di pace, si spalancavano e restavano aperte in tempo di guerra. Anche questa funzione assegnata al dio è un riflesso della coscienza divisa tra il sì e il no che da sempre si combattono dentro di noi, e il nostro pensiero conflittuale che non sa esprimere il superiore se non attraverso la negazione del sottostante, attraverso il suo opposto: l’infinito attraverso il finito, l’immortalità attraverso la morte, e così l’impeccabilità, l’invulnerabilità.
Tutta la nostra scienza nasce anch’essa dalla contrapposizione di due concetti: vero e falso (filosofia), buono e cattivo (etica), bello e brutto (estetica) che è infine il modo stesso in cui la nostra mente funziona per capire il mondo. Un po’ come ottenere una scintilla per effetto dello strofinio di due selci tra le mani di un selvaggio. O se vogliamo scegliere una metafora più moderna, come la logica binaria rappresentata dai bit di un computer. Non deve quindi sorprenderci se per effetto di questa innata bipolarità, che il mito rappresenta con il Giano bifronte, il mondo si presenta come il fedele riflesso del nostro pensiero conflittuale.
Guerre, divisioni di ogni tipo e antagonismi tra razze, culture, religioni hanno dato, e in misura addirittura crescente
continuano a dare forma al nostro mondo. Anche quest’anno, come tutti gli anni, per settimane siamo stati sommersi da ogni sorta di vaticini e profezie che vorrebbero assolvere al rituale di predire cosa il futuro ha in serbo per noi, quali eventi sono già in marcia per venirci incontro sul tapis roulant della storia della specie e della nostra esistenza d’individui. Sociologi, politici, giornalisti e maîtreà-penser, lettori di auspici e di sfere di cristallo hanno assunto il ruolo dei nove auspici di Roma che avevano il compito ufficiale di osservare gli uccelli e trarre vaticini dai loro voli. Tutte le civiltà, antiche e moderne hanno esaltato la divinazione e la profezia. L’uomo, messo faccia a faccia con l’ignoto, col fiato sospeso sul filo della sua precarietà, ha da sempre cercato di sopire le sue paure del futuro imbrigliando il tempo con la falsa sicurezza di piani e previsioni. E le moderne tecniche che con i loro modelli matematici frugano nelle viscere dei computer
per comprendere il futuro non sono sostanzialmente differenti dalle pratiche delle culture arcaiche esercitate con l’ispezione degli organi delle vittime sacrificali.
Il fine è lo stesso: esorcizzare l’ignoto sostituendolo con una più rassicurante descrizione di un mondo pianificato e finalmente posseduto. I pellegrini, inclusi re, imperatori e grandi condottieri, che per tutta l’antichità venerarono e credettero nell’oracolo di Delfi, attraversavano spesso grandi distanze e affrontavano disagi e pericoli per chiedere al dio del loro futuro, e arrivati, trovavano scritto sul timpano del tempio «Conosci te stesso».
Come a dire: che cosa vieni fin qui a fare? Vuoi sapere del tuo futuro? Chiedilo a te stesso. In questo paradosso, apparentemente beffardo, scolpito sul tempio dedicato alla divinazione, gli antichi greci racchiusero il segreto del rapporto tra realtà esterna e mondo interno, tra la psicologia di un uomo e gli eventi e le circostanze della sua vita. L’uomo che conosce se stesso, che è consapevole del flusso di pensieri, d’idee, di emozioni, di sensazioni e intuizioni che gli scorre dentro come un fiume inarrestabile,
conosce il suo futuro. Thinking is Destiny. Egli sa che la sua psicologia è il suo destino. Il mondo è la proiezione del nostro essere.
È così perché l’uomo è così. E le guerre e i conflitti del pianeta non sono che la materializzazione della guerra che ci portiamo dentro. Un abitante del mondo su tre soffre di disordini dell’alimentazione, obesità e diabete sono endemici. Il suicidio è diventato la terza causa di mortalità giovanile. L’inquinamento non trova soluzione e il numero delle persone in prigione è aumentato di quattro volte negli ultimi 20 anni, con gli Stati Uniti in cima alla classifica con 1,6 milioni di detenuti. E niente è più facile e sicuro che prevedere che se l’uomo resta tale i millenari mali del mondo resteranno tali. Non li abbiamo risolti nell’età della pietra e non ce l’abbiamo fatta nell’età digitale, avendo a disposizione energia atomica e Internet. Non c’è bisogno di andare a Delfi e interrogare il dio per conoscere il futuro di una specie fatta di esseri divisi, irascibili, malevoli che hanno usurpato il titolo di homo sapiens, che si trattano così male da aver fatto dell’auto distruttività una sindrome planetaria. C’è un buco nero nel cuore dell’uomo. Da questo, come da un vaso di Pandora, scaturiscono tutte le sventure planetarie. La radice, la causa primaria dei problemi del mondo è l’insondabile abisso delle nostre emozioni negative. Per cambiare il suo destino, l’umanità deve affrontare una rivoluzione del pensiero: abbandonare obsoleti schemi mentali, trasformare emozioni ancora appartenenti alla sua zoologia, sovvertire convinzioni e idee di seconda mano.
È possibile sradicare la povertà e la fame, creare lavoro per tutti, trasformare in amici i nemici più accaniti, avere un pianeta pulito. Sì, possiamo nutrire questo sogno per il mondo e realizzarlo. Ma questo non accadrà nel 2013 né nell’arco della nostra vita, e probabilmente richiederà centinaia di anni. Ma non sarebbe un grande sogno quello di mettere mano a un tale progetto da subito? Per farlo occorrono uomini non ricattati dal tempo. La nostra civiltà ha saputo forgiarli questi visionari, questi utopisti pragmatici, questi pazzi luminosi
che hanno dedicato ogni loro respiro a questo ideale, altrimenti non saremmo qui. La fine della nostra civiltà ci metterà un po’ più di tempo a compiersi ma è già cominciata, da quando abbiamo smesso di produrre le cellule intelligenti del mondo, leader impeccabili, guidati da etica e integrità. Dobbiamo generarli di nuovo, trovarli ed educarli, uno a uno. L’educazione di massa, le scuole e le università che conosciamo non possono farlo. Occorrono scuole dell’essere.


Nessun commento:

Posta un commento