Lezioni di Economia dal Vangelo
Alle parabole non si pongono domande, né da loro si possono chiedere risposte. Il loro fine è di ingannarci. La loro apparente semplicità, elude le nostre difese e permette ad un soffio di verità, a una goccia pura di infinito, di penetrare attraverso la dura scorza dei nostri pregiudizi e delle idee prese a prestito. Pregiudizi e idee dei nostri genitori e tutori, e maestri vari di sventura, diventate convinzioni e mai più messe in discussione. Il naufragio della mente è il trionfo della parabola.
La storia del buon samaritano (Luca 10:25) che dà soccorso a uno sconosciuto incappato nei briganti, e lo cura con olio e vino che sta portando al mercato, è una perla letteraria, dalla luce e dalla forma perfetta. Come tutti i capolavori ha una bellezza evidente a chiunque, ma questo semplice racconto è in realtà una macchina prodigiosa fatta per attraversare gli oceani del tempo e nasconde una profondità vertiginosa la cui intelligenza è riservata a pochi tra i pochi. Da venti secoli generazioni di dotti, asceti, studiosi, credenti ed esegeti continuano a leggerla eppure il suo rivoluzionario messaggio, capace di ribaltare e capovolgere la nostra visione del mondo, resta ancora pressoché sconosciuto.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per la medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita giunto in quel luogo lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versando olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui…. (Luca 10:25)
Se il Vangelo è il libro più letto, più tradotto al mondo, la spiegazione va ricercata ben oltre il fatto di essere il testo sacro del cristianesimo, e ben oltre i contenuti delle sue parabole, spesso banali, quando non addirittura infantili, tanto sono semplici. Il fatto è che quando lo apriamo, dovunque lo apriamo, apparentemente siamo noi a leggerlo, in realtà è il Vangelo a leggere noi. La sue parabole descrivono il nostro mondo interno, passano ai raggi X le nostre emozioni, i nostri processi mentali, fotografati nell’eternità dell’istante, mentre viaggiano nelle foreste dei neuroni, tra le pareti cave del nostro cranio, alla velocità del pensiero.
Della storia del buon samaritano tenteremo quindi una lettura a rovescio, con la disposizione di avere tra le mani un mezzo per studiarci e aiutarci a capire chi siamo. Il protagonista di questa storia non incontra un uomo derubato, un estraneo trovato ferito e abbandonato sulla strada. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita che passano oltre, senza fermarsi, è consapevole di incontrare se stesso, di vedere le proprie ferite. Quelle che si ferma a lenire, a curare, sono in realtà le sue ferite interne.
Il buon samaritano non cura le ferite dell’altro perché è buono o caritatevole, ma perché è consapevole di curare attraverso lui le proprie ferite. Se lo facesse per bontà potrebbe ben essere un “santo stupido” le cui azioni possono dare un sollievo momentaneo a qualcuno ma lasciano il mondo esattamente nelle condizioni disastrose di sempre.
Non a caso il “buon samaritano” è simboleggiato da un commerciante, un uomo abituato a capire dov’é il suo profitto. Lo sappiamo dal fatto che trasporta olio e vino da vendere al mercato. E’ quindi un businessman l’uomo che penetra il segreto della carità paolina. L’intellettuale, rappresentato dallo scriba, vede l’uomo abbandonato sul ciglio della strada e passa oltre senza neppure fermarsi. L’uomo spirituale, il religioso, rappresentato dal levita, vede il bisognoso e passa dall’altro lato della strada senza neppure sfiorarlo. Essi sono le figure simboliche dell’umanità ordinaria, ma anche la metafora della parte più retriva di noi, quell ache crede che gli altri e le loro ferite siano esterne e non abbiano niente a che fare con noi.
E se pure si fermassero a soccorrere materialmente gli altri, la loro azione mancherebbe della condizione fondamentale, di quello stato di intelligenza, di quell’animus potentemente echeggiante nelle parole di Paolo e che egli chiama carità. “E se anche donassi tutte le mie sostanze ai poveri e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non avessi la carità, niente mi giova”.
Solo il samaritano riconosce che il dare agli altri è il più straordinario mezzo per dare a se stesso, per integrarsi. E’ questo egoismo luminoso, la consapevolezza che dare significa dare a se stessi, che santifica il suo aiuto e lo rende prezioso e guaritore per sé e per gli altri.
Se il Vangelo è il libro più letto, più tradotto al mondo, la spiegazione va ricercata ben oltre il fatto di essere il testo sacro del cristianesimo, e ben oltre i contenuti delle sue parabole, spesso banali, quando non addirittura infantili, tanto sono semplici. Il fatto è che quando lo apriamo, dovunque lo apriamo, apparentemente siamo noi a leggerlo, in realtà è il Vangelo a leggere noi. La sue parabole descrivono il nostro mondo interno, passano ai raggi X le nostre emozioni, i nostri processi mentali, fotografati nell’eternità dell’istante, mentre viaggiano nelle foreste dei neuroni, tra le pareti cave del nostro cranio, alla velocità del pensiero.
Della storia del buon samaritano tenteremo quindi una lettura a rovescio, con la disposizione di avere tra le mani un mezzo per studiarci e aiutarci a capire chi siamo. Il protagonista di questa storia non incontra un uomo derubato, un estraneo trovato ferito e abbandonato sulla strada. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita che passano oltre, senza fermarsi, è consapevole di incontrare se stesso, di vedere le proprie ferite. Quelle che si ferma a lenire, a curare, sono in realtà le sue ferite interne.
Il buon samaritano non cura le ferite dell’altro perché è buono o caritatevole, ma perché è consapevole di curare attraverso lui le proprie ferite. Se lo facesse per bontà potrebbe ben essere un “santo stupido” le cui azioni possono dare un sollievo momentaneo a qualcuno ma lasciano il mondo esattamente nelle condizioni disastrose di sempre.
Non a caso il “buon samaritano” è simboleggiato da un commerciante, un uomo abituato a capire dov’é il suo profitto. Lo sappiamo dal fatto che trasporta olio e vino da vendere al mercato. E’ quindi un businessman l’uomo che penetra il segreto della carità paolina. L’intellettuale, rappresentato dallo scriba, vede l’uomo abbandonato sul ciglio della strada e passa oltre senza neppure fermarsi. L’uomo spirituale, il religioso, rappresentato dal levita, vede il bisognoso e passa dall’altro lato della strada senza neppure sfiorarlo. Essi sono le figure simboliche dell’umanità ordinaria, ma anche la metafora della parte più retriva di noi, quell ache crede che gli altri e le loro ferite siano esterne e non abbiano niente a che fare con noi.
E se pure si fermassero a soccorrere materialmente gli altri, la loro azione mancherebbe della condizione fondamentale, di quello stato di intelligenza, di quell’animus potentemente echeggiante nelle parole di Paolo e che egli chiama carità. “E se anche donassi tutte le mie sostanze ai poveri e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non avessi la carità, niente mi giova”.
Solo il samaritano riconosce che il dare agli altri è il più straordinario mezzo per dare a se stesso, per integrarsi. E’ questo egoismo luminoso, la consapevolezza che dare significa dare a se stessi, che santifica il suo aiuto e lo rende prezioso e guaritore per sé e per gli altri.
Quella del buon samaritano è la parabola del ricordo di sé... Rappresenta un momento dell’anima, quando un barlume di consapevolezza ci fa realizzare che qualunque incontro è un faccia a faccia con noi stessi, che quell’essere incappato nei briganti siamo noi, che le sue piaghe sono le paure, i dolori, i fallimenti, ancora nascosti nelle pieghe del nostro essere... sono i sensi di colpa e il magma di emozioni negative di cui non siamo consapevoli e che tuttavia controllano la nostra esistenza. Ma se quel malcapitato è chiamato “il prossimo”, allora… allora… La scoperta ci lascia col fiato sospeso, in preda a una vertigine del pensiero… Il tuo prossimo sei tu. L’altro, gli altri non esistono. Il sacerdote, il Levita non sono viandanti senza compassione ma nostri organi, funzioni interne che mostrano la loro inadeguatezza. La saggezza, la conoscenza, e perfino la religiosità dell’uomo comune non gli permettono di raggiungere questa profondità, questa sincerità con se stesso.
In tutti questi anni abbiamo incontrato gli altri senza alcuna consapevolezza di incontrare le nostre malattie, le nostre cadute, le nostre morti, senza mai realizzare che gli altri siamo noi... Gli altri sono le nostre paure, I nostri dubbi, i nostri sensi di colpa. In futuro, un’umanità guarita avrà scuole capaci di insegnare ai giovani che non c’è più grande avventura che incontrare gli altri e riconoscerli come proiezione della propria psicologia, la materializzazione dei nostri stati d’essere…
In tutti questi anni abbiamo incontrato gli altri senza alcuna consapevolezza di incontrare le nostre malattie, le nostre cadute, le nostre morti, senza mai realizzare che gli altri siamo noi... Gli altri sono le nostre paure, I nostri dubbi, i nostri sensi di colpa. In futuro, un’umanità guarita avrà scuole capaci di insegnare ai giovani che non c’è più grande avventura che incontrare gli altri e riconoscerli come proiezione della propria psicologia, la materializzazione dei nostri stati d’essere…
Quando incontrate gli altri siate gratitudine… in special modo quando incontrate i violenti, perché incontrandoli avete l’opportunità di risolvere la vostra violenza… quando incontrate i poveri perché riconoscendo in essi la vostra povertà potrete eliminarla dal vostro essere… quando incontrate gli ammalati perché attraverso essi potreste guarire da ogni malattia… in special modo quando incontrate i mortali per l’opportunità di riconoscere la nostra vera natura divina… immortale...
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